Luglio 1993: qui Al Sahafi, l’hotel dell’inferno somalo

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Mogadiscio, 29 luglio 2013

Ci sono due modi per testimoniare una guerra. O stare seduti davanti alla piscina dell’Hilton. O muoversi, girare, cercare delle storie da raccontare, snidare le notizie e andare alla loro fonte. A Mogadiscio l’Hilton (o un equivalente) non c’è. Esiste un fetente albergo (che in Italia sarebbe di infima categoria) dove comunque ci si può piazzare.

E’ ben sicuro, di fronte all’ambasciata italiana, sotto il controllo delle sentinelle della nostra legazione. Per uscire si può chiedere una forte scorta militare di parà che, ovviamente, si muovono solo se non ci sono altri impegni. Le notizie ufficiali arrivano comunque (come, per altro, giungono nelle redazioni). Lì alloggia la maggior parte dei giornalisti italiani.

Gli stranieri sono invece all’hotel al Sahafi, “del giornalista” in arabo, sempre fetente ma molto più vivace e interessante, perché al centro della zona controllata dal generale Mohammed Farah Aidid (il ribelle) e vicino alle installazioni civili e militari dell’Onu. Nel bel mezzo del quartiere “Quarto chilometro” dove gli elicotteri americani bombardano, le milizie dei signori della guerra combattono, la popolazione dimostra contro i caschi blu, i posti di blocco pachistani vengono assaliti, i somali litigano armi in pugno davanti alle bancarelle dei mercati, le fazioni ribelli si incontrano e si scontrano, i feriti vengono ricoverati negli ospedali, gli obici e i mortai martellano il porto e l’aeroporto, i cecchini e gli accoltellatori sono in agguato. Insomma, dove la guerra si vive dal di dentro.

E’ qui che alloggiavano Dan Eldon, Anthony Macharia, Hos Maina, della Reuters, e Hansi Krauss, Ap, i colleghi ammazzati selvaggiamente dai somali il 12 luglio. Cari amici, specie Dan, che avevo incontrato in Somalia diverse volte.

Ospiti fissi dell’Hotel Al Sahafi le più importanti agenzie di stampa Reuters, France Presse, Associated Press e il network televisivo americano CNN; ospiti saltuari i grandi giornali da Le Monde, all’Independent, al New York Times alle tv Usa Cbs, Nbc, Abc e gli italiani Corriere della Sera e Tg3 più una schiera di fotografi, cameramen e freelance, come Cristiano Laruffa, Fausto Biloslavo (famoso per le sue campagne in Afghanistan dove fu fatto prigioniero e fu gravemente ferito) e Gian Micalessin, cronista di guerra d’assalto, Raffaele “Lele” Ciriello.

In quest’albergo, in cui la parola pulizia è del tutto sconosciuta, non si dorme mai e c’è una gara a cercar le storie da raccontare, scambiarsi informazioni, correre su e giù per i tre piani aiutando i colleghi con notizie dell’ultimo momento. Al ristorante sanno che i reporters mangiano a qualunque ora e in cambio di una buona mancia Abdulkadir tiene la sala quasi sempre aperta. Una sera si è persino esibito nel “safari” contro un grosso topo che aveva avuto la brutta idea di entrare nell’enorme stanzone. L’animale, contro cui era stato lanciato di tutto, forchette, coltelli, un tazza ed un piatto è stato finito a scarpate al termine di un grottesco quanto divertentissimo raid.

La giornata comincia molto presto. Alle 7 le radioline sintonizzate sulla Bbc danno le prime notizie e risuonano nei corridoi. Bisogna prepararsi al breefing dell’Onu che è alle 9. Poi via si corre a cercare leader politici arrabbiati, miliziani bellicosi, pacifisti incalliti, terroristi islamici, donne determinate a contare qualcosa, organizzazioni umanitarie, uomini d’affari maneggioni, notizie che sbugiardino le dichiarazioni ufficiali degli uni e degli altri, senza peli sulla lingua, e particolari che chiariscano ai lettori (e a noi stessi) l’ingarbugliata situazione somala. Si lascia sempre detto dove si va. Non serve a niente, ma dà la sicurezza che in caso di impiccio qualcuno ti venga a tirar fuori. Il grande stanzone della Cnn è il centro di ritrovo comune.

Tra cavi, telecamere, apparecchiature elettroniche e telefoni ci sono i frigoriferi pieni di bevande. Sui tavoli cartacce biscotti e snack. Lo dirige Ingrid Formanek, insieme a Rober Wiener, la vera protagonista del network americano a Mogadiscio. Produttrice, operatrice, giornalista, non compare mai in video ma se non ci fosse lei la CNN dalla Somalia non trasmetterebbe nulla.

Sempre vestita rigorosamente di nero è un’instancabile lavoratrice. Ai polsi e più su inanella una lunga serie di braccialoni esotici che, secondo le voci correnti, non si possono più sfilare, neanche di notte. E’ una curiosità che non vuol svelare: “Domanda privata, non rispondo”, scherza. La prima ad alzarsi, l’ultima ad andare a letto. Cecoslovacca di nascita, naturalizzata americana, parla otto o nove lingue, tra cui l’italiano. Esce sempre con giubbotto antiproiettile che si getta sulle spalle con non chalance. “Dove si va stamattina”. “Prendiamo il check-point Pasta”. “Ok, andiamo”. E Maria Fleet, un’operatrice dai riccioli rossi, la segue quasi come un’ombra. Maria a Bagdad filmò il missile che colpì l’hotel Rashid e finì a due passi dalle sua gambe.

Per confermare una notizia Ingrid non si ferma davanti a nulla. Alle conferenze stampa dell’Onu fa le domande più intelligenti, ma litiga con i portavoce che lesinano le informazioni. Chiama, facendo piazzate telefoniche senza problemi, l’ufficio di Butros Ghali o il Pentagono o il Dipartimento di Stato. “Pronto, qui è la CNN da Mogadiscio. Voglio sapere se è vero che … E me lo dica subito, non intendo aspettare. La telefonata costa cara e voi siete al servizio dei cittadini”. Normalmente ottiene quel che vuole.

Andy Hill, il capo dell’ufficio della Reuters (ora purtroppo chiuso dopo il tragico assassinio di tre dei suoi componenti) è un tipo calmo e serafico, diventa però un leone quando c’è da entrare in azione. “Tutti sul terrazzo, sparano”, grida come un matto quando fuori si sente mitragliare; e tutti corrono su per vedere cosa succede. Si porta su il suo telefono collegato a un filo lunghissimo e detta a braccio ciò che vede. Quando l’azione si calma il gruppo si lancia giù dai gradini come un branco di bisonti per correre a vedere sul posto.

Al Sahafi non esiste privacy. Le chiavi delle stanze di ciascuno di noi sono sullo stipite della porta a disposizione dei colleghi. Chiunque può entrare, servirsi del telefono satellitare per chi ce l’ha (e la Reuters ha messo a mia disposizione quello che ha lasciato a Mogadiscio), leggere gli articoli scritti o quelli in programmazione, consultare archivi personali.

Altro veterano è David Chazan, della France Presse, gran conoscitore della Somalia, sempre pronto a lanciarsi nelle avventure più incredibili. Ilaria Alpi segue a ruota. Poco più di 30 anni, conosce l’arabo e è preziosissima quando si deve intervistare qualcuno che non parla né italiano né inglese. Ilaria durante i bombardamenti del 12 luglio, quando furono uccisi i quattro colleghi, era sparita ed è stata una gara di solidarietà per andare a capire dove si fosse cacciata. Quando si è scoperto che in quel gran casino si era rifugiata a casa di amici, tutti al Sahafi hanno tirato un sospiro di sollievo. Il suo cameraman è Alberto Calvi, diventato famoso durante la guerra del Golfo. A lui si arrese quel gruppo di soldati di Saddam che voleva chiudere con la dittatura.

Nella stanza 315 lavora con la testa completamente fasciata con bendaggi bianchi Scott Peterson, del Daily Telegraph. E’ stato colpito da una pietra quel terribile 12 luglio. Sempre in prima fila i fotografi Cristiano Laruffa (era qui anche durante la guerra contro Siad Barre) e Danilo Malatesta. Danilo a ogni raffica di mitra che passa vicino ride: “La senti la scarica d’adrenalina dietro la schiena?” E poi c’è l’inglese Karl Maier, dell’Independent. Parla anche un po’ di italiano e questo non guasta in Somalia.

Al Sahafi i giornalisti sono sempre vestiti male: jeans, scarpe da tennis, magliette e quelle giacche piene di tasche dove si fa una gran confusione e si perde mezz’ora a trovare ciò che serve urgentemente.

Un giorno al cancello ha bussato un collega italiano di un grande quotidiano. Pantaloni ben stirati (la riga era perfetta), valigia Samsonite con rotelle, scarpe di camoscio, camicia candida. Gli mancava solo la cravatta. Arrivava dall’aeroporto e l’unico passaggio che aveva trovato portava al Sahafi. Dopo aver visto la situazione ha chiesto con ingenuità: “Vorrei andare all’hotel degli italiani, mi chiama un taxi?”. Forse credeva di essere a Parigi e non si è reso conto che se fosse uscito dal cancello così con la sua Samsonite lo avrebbero lasciato in mutande in un baleno. Al Sahafi questa storia ha fatto il giro degli impiegati che ne ridono ancora oggi.

Con i nuovi arrivati “che si adattano” (in questo momento è pieno di tedeschi giornali e televisioni) si lega invece subito, perché alla sera, dopo una giornata passata a correre a destra e a manca, ci si ritrova sulla terrazza dell’albergo, all’ultimo piano, rigorosamente al buio per evitare che i cecchini possano mirare meglio, ad aspettare il quotidiano scambio di armi da fuoco.

Vietato inciampare in cavi, antenne paraboliche per i telefoni satellitari, apparecchiature di trasmissione televisive. Il tetto dell’albergo è carico di apparati tecnologici all’avanguardia e stona se confrontato con il resto della città cascante e diroccata. In attesa dei fireworks, i fuochi d’artificio come vengono chiamati i tiri, si discute dei servizi di domani, si stimolano le idee per nuove storie, si confrontano le ipotesi diverse.

Alle 23 qualcuno comincia a crollare. “Ciao, vado a letto, buonanotte”. Ma non è finita. I colpi di cannone, di mortaio e le sparatorie con armi automatiche cominciano più tardi, alle due, alle tre, alle quattro. E c’è sempre qualcuno che ti bussa alla porta. “Correre, correre”. E tutti di nuovo sulla terrazza, in pigiama, in mutande, a piedi nudi, in ciabatte, a vedersi passare le pallottole sulla testa perché il Sahafi è sempre al centro di tutto. I cameraman strisciano per terra per raggiungere il parapetto e piazzare con meno pericolo possibile le loro telecamere. E così spesso si tira mattina. Ma, tra un colpo di cannone e l’altro, c’è sempre qualcuno che con una battuta fa scoppiare una grossa risata generale.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

Nelle foto dall’alto: il terrazzo del Sahafi pieno di giornalisti, Mike Hanna (CNN), la mia stanza, il team di Ingrid Formanek, poi il salone della  Philp DaviesCNN, la sala da pranzo, un party per il compleanno di qualcuno (da sinistra Philip Davies, Massimo Alberizzi, Cyndie Strand (CNN), Reid G. Miller (AP), Donatella Lorch (New York Times), Paul Watson (Toronto Star, vincitore di un premio Pulitzer), un momento di svago si gioca al calcetto, Philip Davies.

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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