Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
06 ottobre 2015
Le milizie di Misurata hanno liberato 45 detenuti gheddafiani per la festa islamica del Sacrificio (Eid al Adha), che in Libia quest’anno ha segnato il concretizzarsi dei negoziati per il governo di unità nazionale, con un protocollo da firmare entro il 20 ottobre. Dagli islamisti che controllano anche il Parlamento di Tripoli è un segnale di pacificazione, ma altre notizie non fanno ben sperare.
L’inviato speciale per le Nazioni Unite, Bernardino Leon, ha espresso ottimismo per un “accordo raggiunto all’80%”. Ma poi ha lasciato l’incarico senza proroghe, alla scadenza di mandato, cedendo quella che sarebbe stata una sua vittoria personale al successore, il tedesco Martin Kobler. Se l’intesa era davvero a un soffio dal traguardo, perché consegnarla a un diplomatico che ha lavorato più in Medio Oriente che in Africa e non ha esperienze in Libia?
Il capo della Farnesina Paolo Gentiloni chiedeva che Leon restasse fino all’auspicata firma dei governi di Tripoli e Tobruk, i due principali poteri che si scontrano in Libia: gli islamisti di Misurata e Tripoli contro il parlamento esiliato nell’Est dei laici (tra i quali i gheddafiani) del generale Khalifa Haftar. “Altrimenti si dovrà ricominciare da capo col rischio di una degenerazione enorme”, ha detto il ministro degli Esteri italiano, ma l’Italia che aspira alla leadership sulla transizione in Libia non è ascoltata né a Palazzo di Vetro né dai leader europei.
All’Assemblea generale dell’ONU il premier Matteo Renzi ha fatto un discorso roboante, rivendicando il “ruolo di guida per l’assistenza e la stabilizzazione della Libia, se il governo libico ce lo chiede”: un intervento non solo militare cioè, legittimato dalle Nazioni Unite con il via libera di un governo libico di unità nazionale come interlocutore.
Poi però il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha incaricato un tedesco, non un italiano, come nuovo inviato speciale in Libia, dove prima della caduta di Gheddafi la Germania, diventata molto attiva anche in Siria, era il secondo Paese Ue con più interessi dopo l’Italia. Tutto può essere, in queste settimane la matassa si potrebbe sbrogliare e Tripoli pacificarsi davvero con Tobruk. Ma il quadro attuale non è incoraggiante per i piani italiani, in un momento in cui l’Italia aspetta risposte importanti dalla Libia.
Mancano ancora all’appello i quattro tecnici italiani della Bonatti – Gino Pollicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla – rapiti a luglio, mentre erano in viaggio verso l’impianto petrolchimico di Mellitah, a ovest di Tripoli, cogestito dall’Eni. I servizi segreti e la diplomazia italiane sono al lavoro, ma i famigliari non ricevono novità e da un po’ in Libia si susseguono voci – trasversali agli schieramenti, anche se subito strumentalizzate – di trafficanti all’origine di sequestri e delitti collegati a italiani.
Prima di lanciare, a luglio, la missione navale dell’Ue contro barconi e scafisti capitanata dagli italiani, la colpa di rapimenti e omicidi veniva sempre data alle milizie. Poi, qualche giorno prima che, da fonti dell’intelligence italiana, filtrassero le indiscrezioni ai media sul “sequestro dei quattro italiani” come ritorsione per “l’arresto di trafficanti”, le medesime informazioni erano giunte ad Africa ExPress anche dagli abitanti di Mellitah. A livello ufficiale, i vertici dei servizi e della Farnesina hanno poi smentito collegamenti tra il più grosso sequestro di italiani in Libia e arresti di scafisti.
A settembre ha avuto poi molta eco l’arresto in Germania, su mandato europeo di cattura della Procura di Palermo, di un altro boss, di origine eritrea, della rete di Tripoli della tratta di esseri umani, che si spacciava richiedente asilo. Infine il tam tam del giallo, derubricato a bufala, sull’uccisione di un trafficante libico, in un conflitto a fuoco a Tripoli con un commando che usava armi non libiche e “parlava italiano”.
L’identità del morto pare essere stata confusa. Dopo le secche smentite di Roma su “forze speciali” mandate in Libia, i riflettori si sono spenti e la colpa è andata ai soliti scontri tra le tribù libiche foraggiate per decenni da regalie in armi e prebende dal rais . Ma è comunque strano che politici libici, anche discutibili, abbiano (salvo poi ritrattare) puntato il dito direttamente contro gli italiani: un azzardo inedito, tanto è grande la dipendenza economica dell’ex colonia dall’indotto petrolifero dell’Eni.
In Libia il Cane a sei zampe continua a pompare gas e petrolio a livelli pre-guerra, grazie ai giacimenti offshore e grazie anche ai rapporti ufficiali e ufficiosi intessuti con entrambi i governi, quello riconosciuto di Tobruk e anche quello gli islamisti di Tripoli, e con le milizie che controllano giunte comunali e parlamenti di un Paese frammentato da oltre 1.700 gruppi armati. L’ambasciata italiana è stata l’ultima a sgomberare a febbraio, mentre tutte le altri sedi diplomatiche erano state bersagliate da attentati e intimidazioni.
Ora anche per l’Italia sembra che il vento inizi a cambiare. Una risoluzione presentata all’ONU a settembre dagli inglesi chiede di autorizzare gli europei a blitz sui barconi dei migranti in acque internazionali, “usando tutte le misure necessarie”, cioè il ricorso all’azione militare del Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite. A causa delle diverse legislazioni vigenti nell’Ue, Gran Bretagna e Germania avrebbero bisogno del via libera dell’Onu per sequestrare e distruggere i barconi mentre l’Italia, secondo fonti diplomatiche, potrebbe in realtà già farlo dall’inizio della missione.
Nella prima stesura della bozza si chiedeva il Capitolo 7 anche per i blitz nelle acque e sulle coste libiche, ma le fazioni in guerra si sono opposte all’unisono. Dal 2014, secondo un rapporto ONU, in Libia si contano oltre 4.600 morti nei combattimenti. Un terzo degli oltre sei milioni di abitanti vive in alloggi precari. Bengasi, la seconda città e capitale economica del Paese, è distrutta dai bombardamenti. A Tripoli la vita sembra andare avanti, ma sempre più attività sono paralizzate, le famiglie vengono depredate da razzie e sequestri e la disoccupazione è in forte aumento.
Barbara Ciolli
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