Speciale per Africa ExPress
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 28 settembre 2015
Negli ultimi giorni è andata in scena a New York una pantomima decisamente poco edificante per la comunità internazionale e le sue istituzioni, imbrigliate tra l’ipocrisia dei rapporti diplomatici e la realpolitik dell’ignoranza: Teodorin Nguema Obiang Mangue, secondo vicepresidente della Guinea Equatoriale e ministro della Difesa e della Sicurezza nazionale, ha capitanato il codazzo di delegati della piccola repubblica subsahariana al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, dove si è tenuta l’Assemblea Generale.
Nguema, che per la prima volta in consesso così “alto” ha fatto ufficialmente le veci del padre Teodoro Obiang, si è prodigato in sorrisi smaglianti ai fotografi, strette di mano emblematiche con i paesi amici, Cuba, Gabon e Cina in particolare, ed un discorso decisamente inconcludente e fuori tempo massimo al secondo giorno di lavori dell’Assemblea.
Secondo fonti ufficiali vicine al Dipartimento di Stato americano il capo delegazione Teodorin Nguema è stato accettato di buon grado sia dal governo di Washington che dalle Nazioni Unite in virtù del processo di democratizzazione in atto nel piccolo paese africano: le elezioni del 2016, il prossimo congresso del PDGE in novembre, unico partito nel paese, le promesse del governo di Malabo.
Si è perciò preferito girare il volto dall’altra parte, forse in nome della realpolitik, forse in nome del “Signor Dollaro”, concedendo ad un criminale internazionale (acclarato e pregiudicato) di sedersi nella più importante assemblea di capi di Stato del pianeta. Anzi, c’è di più: nell’elenco degli interventi il titolo con cui viene presentato il giovane rampollo della famiglia Obiang non è quello di vicepresidente ma di Presidente della Repubblica, una promozione inconsapevole (e solo su carta) che ironicamente fa gettare un occhio al futuro. Nguema è infatti l’erede designato per succedere al padre al potere.
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Per questo forse il rampollo di casa Obiang sta muovendo le sue pedine più importanti: Crisantos Obama Ondo, ex-ambasciatore in FAO a Roma, travolto da un presunto complotto da lui denunciato che avrebbe voluto alcuni oppositori tentare di introdurre un malato di ebola nel paese durante la coppa d’Africa, potrebbe presto prendere il posto di Anatonio Ndong Mba, ambasciatore presso le Nazioni Unite, recentemente schiaffeggiato in pubblico da Teodorin durante un incontro diplomatico in Gabon.
Obama Ondo, definito “l’uomo di Nguema in Italia” fino a pochi giorni fa, avrebbe in questo modo garantita una scappatoia diplomatica ad un processo intentatogli in Spagna dalla coalizione di partiti d’opposizione in esilio, la Cored, nel quale risulta già essere contumace.
Nonostante ciò, l’immagine che la Guinea Equatoriale è riuscita a confezionare per il mondo dei media internazionali è, come al solito, quella di un paese progressista in cui la ricchezza viene equamente distribuita, la sanità e l’istruzione garantiti e la democrazia rappresenta il valore assoluto per gli uomini dello Stato.
Nel suo intervento Teodorin Nguema, che non può mettere piede in Francia, Spagna, Svizzera e Brasile perché verrebbe immediatamente arrestato ma che ha tranquillamente passeggiato per la Quinta strada di New York onorando il suo affamato popolo con un pomeriggio di shopping da centinaia di migliaia di euro (nonostante debba ancora concludersi il patteggiamento faraonico per riciclaggio internazionale, 30 milioni di dollari, con il governo degli Stati Uniti), ha parlato di “pace e prosperità per gli esseri umani” ricordando “l’importanza della pace e della giustizia per tutti” e sottolineando gli obiettivi raggiunti dal suo paese in materia di sviluppo: “la riduzione del 50% della mortalità infantile”, in particolare, è stato uno dei passaggi più crudeli del vicecapo di Stato, che ha omesso completamente la parte più recente di questo “sviluppo”; secondo fonti mediche locali infatti nelle ultime settimane sono decine i bambini neonati morti nelle incubatrici negli ospedali pubblici di Malabo e Bata, ove si sta affrontando una crisi elettrica quasi senza precedenti con blackout che durano anche diverse ore. Lo sviluppo economico e “la riduzione del 50% della povertà”, sostiene Nguema, ha dato nuova linfa all’economia della Guinea Equatoriale, che oggi è tuttavia al collasso per gli eccessi della corruzione, arrivata a un punto tale che lo Stato si è dichiarato insolvente con le imprese straniere.
L’ipocrisia però non è finita qui: mentre Nguema si riposava dopo il suo discorso all’Assemblea Generale a Roma, di fronte l’ambasciata della Guinea Equatoriale, quattro donne si incatenavano per chiedere il rispetto dei diritti del prigioniero e la liberazione di quattro connazionali, Fabio e Filippo Galassi e Fausto e Daniel Candio, tutti romani, dalle soffocanti maglie della giustizia guineana, che accusa Fabio di reati societari e detiene nelle sue carceri, a cascata, tutti gli altri senza motivazioni concrete.
La Guinea Equatoriale ha inoltre fatto sapere di aver donato 100mila dollari per la Ark of Return, il monumento alle vittime africane della schiavitù inaugurato pochi mesi fa proprio di fronte al Palazzo di Vetro: un monumento che è stato finanziato anche dagli schiavisti di oggi, tra cui un regime crudele di Malabo che affama e letteralmente schiavizza uomini e donne di tutte le età e nazionalità. Forse questa è l’ipocrisia più grande, nel mondo dei gesti simbolici e delle cerimonie ufficiali.
Andrea Spinelli Barrile
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