Speciale per Africa ExPress
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 5 settembre 2015
E’ sempre più critica la situazione in Burundi, dove il “neo eletto” presidente per la terza volta Pierre Nkurunziza ha giurato il 20 agosto scorso, malgrado i numerosi appelli, dell’opposizione e della comunità internazionale, per le sue dimissioni.
Il terzo, contestatissimo, mandato presidenziale di Nkurunziza si apre all’insegna delle violenze, che rischiano di trascinare il Paese lungo un’escalation di sangue che potrebbe mettere in ginocchio non solo il Burundi ma tutta l’area: il voltafaccia di Agathon Rwasa, leader dell’opposizione nel quale speravano in molti e che sarebbe stato convinto dal presidente dell’Uganda Yoweri Museveni (con “decine di milioni di franchi” scriveva Burundinews) ad accettare il risultato delle elezioni farsesche, se non addirittura di tirare i remi in barca in piena campagna elettorale, sarebbe finalizzato a mantenere intatti gli accordi segretamente siglati tra Uganda e Burundi per lo sfruttamento illegale di importanti giacimenti di nickel presenti nella zona di Rutana.
Le proteste inscenate in tutto il Burundi vengono represse da settimane con la forza bruta: secondo quanto denuncia un rapporto di Amnesty International le forze armate del Paese, i servizi di intelligence e la polizia burundese avrebbero torturato gli oppositori arrestati, senza accuse né mandati, nel corso delle manifestazioni per obbligarli a rilasciare informazioni sui gruppi d’opposizione nel piccolo paese africano.
“Hanno iniziato a picchiarmi con una sbarra di ferro. Poi mi hanno chiesto di spogliarmi. Hanno preso un contenitore pieno di sabbia e l’hanno legato ai miei testicoli. Mi hanno lasciato così per oltre un’ora e sono svenuto. Quando ho ripreso conoscenza, mi hanno fatto sedere sopra una pozza di acido di batteria, che bruciava terribilmente”, si legge nel rapporto di Amnesty, citando un uomo che racconta di essere stato chiuso in stanze piccolissime e qui torturato per estorcere confessioni e impegni formali a non manifestare più contro il Presidente.
Molte torture sono state praticate in un centro di detenzione della polizia che ufficialmente non esiste, chiamato Da Ndadaye: i malcapitati (giornalisti, attivisti per i diritti umani, semplici cittadini) sono stati costretti, denuncia Amnesty, a immergere la testa in secchi d’acqua sporca, picchiati con cavi elettrici e sbarre di metallo: “Una sera di luglio mi hanno portato in una stanza minuscola, dove non c’era spazio neanche per stare sdraiato. Ho dormito seduto. Il mattino dopo mi hanno spostato in un’altra stanzetta, col pavimento ricoperto di sassi. Il terzo giorno, un’altra stanza piena di schegge di vetro. Mi hanno obbligato a scrivere i nomi di tutte le persone che conoscevo e a firmare una dichiarazione per cui non avrei mai più preso parte a manifestazioni”.
Questa settimana si sono registrati scontri nei quartieri Cibitoke e Kamenge della capitale Bujumbura, con gruppi di ribelli armati che hanno commesso incursioni violentissime contro l’esercito che difende la capitale. Per tutta risposta le forze armate di Nkurunziza, scrive l’Ugandan Time, hanno risposto con armi pesanti ed artiglieria contro la popolazione dei quartieri su ordine diretto della presidenza, che sembra volersi concentrare più sul massacro che sulla difesa dello stato di diritto.
Secondo il quotidiano ugandese non si potrebbe escludere l’intervento armato del vicino Ruanda, anche se tutte le informazioni che arrivano dal Burundi vanno verificate con attenzione. Sul posto, infatti, non ci sono molti giornalisti internazionali e coloro i quali restano nel Paese vivono in una condizione di controllo costante degli spostamenti e delle comunicazioni da parte delle autorità burundesi.
Molti media, africani e occidentali, tendono per questo motivo a minimizzare quanto sta accadendo: la corsa alle armi di una parte della popolazione civile, la resistenza armata da parte di gruppi organizzati, le sconfitte della polizia e dell’esercito e le reazioni spropositate e violentissime contro civili e oppositori però, per quanto abbiamo potuto verificare, sono una realtà che sarebbe criminale negare al mondo.
Secondo i conoscitori del piccolo ex protettorato belga, la rielezione di Pierre Nkurunziza alla presidenza del Burundi potrebbe avere presto gravissime ripercussioni sull’intera Comunità dell’Africa Orientale (EAC, East African Community) cui fanno parte Burundi, Kenya, Ruanda, Tanzania e Uganda: fonti interne al Segretariato EAC avrebbero confermato al sito del settimanale The East African che GIZ, l’Agenzia di sviluppo tedesca che risulta essere tra i principali donatori nell’area, avrebbe chiesto formalmente l’esclusione del Burundi dai programmi di sviluppo regionale da essa finanziati. Un problema che potrebbe ingrandirsi in fretta, visto che anche già alcuni paesi UE, come il Belgio, la Francia e il Regno Unito, hanno tagliato i fondi destinati al Burundi; così hanno fatto anche gli Stati Uniti, che hanno sospeso vari accordi di cooperazione preannunciando l’imminente esclusione del Paese dal programma americano di crescita e opportunità per l’Africa (AGOA).
Anche l’Unione Africana e la Comunità Internazionale hanno deciso di non riconoscere il Presidente in carica e minacciano di aprire indagini giudiziarie internazionali, in particolare sui crimini contro l’umanità registrati in queste settimane.
Nel frattempo però nel Paese sembra che il regime stia cercando di inasprire nuovamente l’odio etnico tra hutu e tutsi, probabilmente per mascherare meglio le violenze a danno degli oppositori: la notte tra il 12 ed il 13 agosto scorso si è tenuta una riunione nazionale delle Imbonerakure, “quelli che vedono lontano” i giovani miliziani paramilitari che sostengono il regime hutu-power di Nkurunziza. Presenti all’incontro un centinaio di quadri dell’organizzazione e di decine di comandanti ribelli ruandesi delle FDLR (Forces Democratiques de Liberation du Rwanda, dominato dagli hutu).
Secondo alcune informazioni uscite dalla riunione e puntualmente riportate da Fulvio Beltrami sul sito L’Indro, in quella riunione di criminali internazionali e personaggi molto poco raccomandabili si sarebbe delineata una vera e propria strategia militare per garantire la stabilità del Paese: aumento della propaganda hutu-power, che punta il dito innanzitutto ai “traditori” hutu e poi agli odiati tutsi, e preparazione per un imminente escalation di violenza in tutto il Paese. Il rischio è che in Burundi si riapra un capitolo, a dire il vero mai chiuso, che rischia di affogare l’intera regione in un nuovo bagno di sangue civile, rinfocolando l’odio etnico tra hutu e tutsi.
Secondo le notizie che arrivano dal Paese, l’offensiva potrebbe essere preceduta da una prima fase di purghe tra gli ufficiali dell’esercito. Si sono già registrati i primi casi, come quello del colonnello Richard Hagabimana, vice capo della Direzione Generale della Polizia Nazionale; l’ufficiale è stato torturato brutalmente in carcere perché accusato di aver partecipato al tentativo di colpo di Stato, un fatto denunciato dai media internazionali grazie alle dichiarazioni del suo avvocato di nazionalità greca. Il legale ha spiegato che l’unica “colpa” dell’ufficiale sarebbe quella di aver rifiutato di sparare contro la popolazione durante le manifestazioni di giugno.
A questo si aggiungono le prime violenze perpetrate dalle forze armate burundesi coadiuvate dai ruandesi del FDLR: in quartieri ghetto della capitale come Musaga, ma non solo, polizia e FDLR hanno bloccato le vie d’accesso per non far più entrare né uscire nessuno. L’obiettivo, riferiscono fonti locali, è di bloccare ogni tentativo di rivolta ma di fatto la popolazione si sta riducendo alla fame e i molti feriti muoiono come mosche per mancanza di cure.
I generali fedeli al regime hutu-power avrebbero inoltre informato, sempre nel corso della riunione del 12 agosto, della liberazione di numerosi criminali comuni dalle carceri burundesi, come già avvenuto più volte in passato: sono queste le persone cui vengono affidati i lavori sporchi da Imbonerakure.
Il rischio di una nuova guerra razziale tra hutu e tutsi, che potrebbe infettare tutta l’area EAC, non è da sottovalutare: l’obiettivo di molti infatti, con il sapiente uso di una forte propaganda nazionale ed internazionale su un fantomatico “complotto tutsi”, non solo in Burundi ma anche in Rwanda e Congo, è rinfocolare l’odio, per meglio nascondere i crimini commessi nelle ultime settimane, ed affiancarsi l’opinione pubblica, soprattutto europea.
Anche in Africa “la storia si ripete”, ma il Burundi non è il Ruanda del 1994: l’attenzione mediatica sulle elezioni di maggio, sulle violenze e le violazioni dei diritti umani di quest’estate e sui crimini perpetrati contro la popolazione, rischia di rovinare la strategia del regime burundese prima ancora che questa venga attuata. La gente burundese sembra avversa al potere di Nkurunziza, oltre che poco disposta a tacersi, così come anche molte ong internazionali; i governi di Belgio e Stati Uniti stanno apertamente preparando il dopo-Nkurunziza ed anche gli amici del regime sembrano cercare di ritagliarsi più un ruolo da frenatori (occulti ovviamente) che da incendiari. Certo è che la fragilità sociale dell’intera area non fa pensare a nulla di buono.
Andrea Spinelli Barrile
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