Il basket americano sbarca in Africa. Con un canestro pieno di speranze e di illusioni

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Milano, 19 agosto 2015

Un canestro simbolo dell’inarrestabile diffusione mondiale dello sport cestistico targato Usa. O di colonialismo sportivo o commerciale? Tutti gli interrogativi sono legittimi dopo lo sbarco in terra d’Africa della più importante lega professionistica maschile di pallacanestro yankee e la più famosa nel mondo, la NBA, ovvero la National Basketball Association.

Quali che siano le risposte a dubbi e attese, sabato 1° agosto 2015 è destinato a diventare una data “storica” nell’Africa sportiva e non solo.

Sabato 1° agosto scorso, infatti, a Johannesburg , in Sudafrica,  patria di Nelson Mandela, si è disputata la prima partita della NBA nel Continente nero. La leggendaria lega cestistica Usa da tempo ha avviato una campagna – diciamo così – di proselitismo mondiale. Si è esibita in Cina, a Tokio, a Città del Messico, a Londra, a Milano… Insomma in tutto il mondo.

Proprio nel capoluogo lombardo, il 6 ottobre prossimo, al Forum di Assago, l’Armani Milano sfiderà i Boston Celtics in una gara amichevole. I biglietti sono già in vendita e a prezzi salatissimi. La manifestazione si inserisce nel Global Game 2015, una delle tante strategie commerciali che la NBA sta attuando da tempo per imporre il proprio brand e allargare il  merchandising al di fuori del continente americano.

Alla globalizzazione del canestro (o alla globalizzazione del “suo” canestro), alla NBA mancava, dunque, l’Africa. Il 1° agosto è stato aggiunto l’anello mancante con l’NBA Africa Game, in cui – secondo gli osservatori più ottimisti – la Lega professionistica Usa ha provato a portare un messaggio di integrazione, unione e speranza cercando di coniugare solidarietà e sviluppo del brand NBA nel continente africano.

Per la cronaca l’incontro è stato vinto 101-97 dal Team World (composto da giocatori provenienti da tutto il mondo) contro il Team Africa (formato da giocatori africani fino alla seconda generazione) e ha riportato in campo anche Hakeem Olajuwon, algerino, e Dikembe Mutombo, angolano, due star africane che oltre 30 anni fa per prime sono state ingaggiate negli States. Alla partita hanno assistito poco più di 4 mila persone, una presenza risibile se paragonata alla quantità di tifosi che affollano le tribune degli stadi calcistici in Sud Africa e non solo. E’ arcinoto che la vera passione continentale è il pallone rotondo, o al più quello ovale del rugby, e non quello a spicchi del basket.

Eppure il match del 1° agosto giocato all’Ellis Park Arena di Johannesburg è stato tutto fuorché una semplice gara di pallacanestro. E’ stato caricato di significati e di aspettative molto più alti delle pur vertiginose stature dei giocatori. La stessa location non è stata scelta a caso. L’Ellis Park è l’arena in cui Nelson Mandela simbolicamente indossò la maglia verde della nazionale sudafricana del rugby in uno dei momenti più toccanti delle sue apparizioni in pubblico. Era il 24 giugno 1995, il giorno della finale tra il Sud Africa e Nuova Zelanda e quel gesto fu un elemento fondamentale per superare l’apartheid e cambiare la storia.

Secondo il ministro degli Sport e della ricreazione, Fikile Mbalula, 44 anni, alla vigilia dell’evento ha affermato “questa partita è la conferma che il Sud Africa è ancora una volta al centro dell’attenzione mondiale e per i giovani africani l’opportunità di vedere quanto lontano possono portare il proprio talento nella migliore Lega del mondo”. Un messaggio di speranza lanciato da un ministro noto per il tifo sfegatato per la più titolata squadra calcistica di prima serie, il Kaizer Chiefs Football Club di Johannesburg.

Mbalula è ben noto anche per le sue esternazioni colorite e poco diplomatiche. Quando nel gennaio 2014 i Bafana Bafana (simpatico appellativo della nazionale del pallone) furono eliminati al primo turno dalla Coppa d’Africa, definì i giocatori “un branco di incapaci”.  Per Serge Ibaka, 26 anni a settembre, ala grande degli Oklahoma City Thunder, nato a Brazzaville, nella Repubblica del Congo ma naturalizzato spagnolo, “questa gara rappresenta molto. Ho aspettato questo momento a lungo e mi sento orgoglioso di avere la possibilità di giocare questa partita qui, e lo stesso spero valga per i giovani e bambini, per il basket in Africa e credo sia un evento veramente importante per tutti noi. Anche un incontro di basket può cambiare una vita”.

Ibaka è un idolo internazionale del basket: data la sua origine e la sua mole (è alto metri 2,08 e pesa  oltre 106 chili) è stato ribattezzato Air Congo. Ha aggiunto il senegalese Gorgui Dieng, 25 anni, (altro gigante: 211 centimetri per 111 kg!) centro dei Minnesota Timberwolves: “La mia speranza è che la Nba possa contribuire nella crescita del basket in questo continente”.

Secondo Masai Ujiri, 45 anni, nigeriano, e primo general manager di nazionalità africana nel professionismo sportivo statunitense (dirige i Toronto Raptors) “è incredibile avere tutti questi giocatori che tornano a casa e non solo i giocatori africani, ma provenienti da tutto il globo; significa unità, oltre a dare un’idea di progresso a tutto il continente. Non vogliamo essere più visti come vittime, ma come un continente nascente”. Per capire le parole di Masai Ujiri occorre prendere in considerazione due elementi: nella Nba dal 1984 hanno giocato 35 giocatori africani (i primi – come detto – sono stati il nigeriano Olajuwon e l’angolano Mutombo, divenuti delle leggende sotto canestro). Nella stagione cestistica 2015-2016 la NBA potrebbe arruolare il numero record di 11 giocatori nati in Africa.

Inoltre Ujiri dal 2003 è impegnato con  il programma della Nba  “Basketball without borders” per la diffusione di questo sport in Africa. Così come Bismack Biyombo Sumba, congolese, 23 anni, altra torre dei Toronto Raptors (206 cm per 111 chili). Biyombo crede sul serio nella funzione educatrice dello sport e nello sport come riscatto sociale. Questa estate ha organizzato in Congo campi per circa 2000 ragazzi.

Prima della storica partita ha ricordato con quale desiderio e stupore guardasse in tv le stelle della pallacanestro e come “sia un passo da gigante per i ragazzi africani vedere dal vivo i campioni della NBA. Per me è qualche cosa di molto speciale prendere parte a questo evento”. Così come lo è stato per uno dei lunghi di punta del Team Africa, Giannis Antetokounmpo, 20 anni, greco, figlio di immigrati nigeriani, che per anni hanno vissuto illegalmente ad Atene vendendo per strada riproduzioni di famose griffe. “Certi giorni non vendevamo nulla e ci mancavano i soldi per la cena. Per giunta vivevamo nel terrore che la polizia potesse fermarci ed espellerci”, ha ricordato una volta sbarcato in America. Giannis, infatti, oggi gioca per il Milwaukee Bucks e guadagna quasi 2 milioni di …bucks all’anno. Da ambulante, anzi da vu’ cumprà, a star emergente nella Nba.

Non stupisce quindi che la partita del 1° agosto sia stata giocata da tutti con entusiasmo per fini umanitari oltre che propagandistici: l’obiettivo era anche quello di aiutare Boys&Girls Clubs of South Africa, SOS Children’s Village e la Nelson Mandela Foundation.

Ha commentato il giornalista e scrittore di origini nigeriane, Lanre Alabi, sul Daily Illini, un antico giornale studentesco (risale al 1871) dell’università dell’Illinois: “Con l’emergere di tanti giocatori africani, la popolarità della Nba in Africa è andata alle stelle. La lega americana non è vista più solo come una nuova fonte di svago ma per gli atleti più alti come una strada percorribile per sfuggire alla povertà”. Sembrerebbe, quindi, che educazione ed emancipazione possano andare di pari passo con la diffusione del basket e la commercializzazione del brand della Nba, sempre alla ricerca di nuovi mercati e nuovi tifosi. Sembrerebbe.

Ma la disillusione può essere sempre dietro l’angolo, come ammonisce saggiamente il senegalese Amadou Gallo Fall, che invita tutti a non sognare troppo. Chi è Gallo Fall? E’ l’ideatore e fondatore di Seeds, una Academy no-profit, a 60 km da Dakar, che con il supporto di Nba, Nike e Unicef diffonde la pratica del basket. “Negli anni – ha scritto la Gazzetta dello Sport – ha mandato oltre 40 ragazzi negli Stati Uniti con una borsa di studio: sono circa 30 i ragazzi (ora c’è anche la sezione femminile) che annualmente fanno parte del programma di Seeds: studio, tutoring, sei allenamenti a settimana, camp di specializzazione estivi con giocatori Nba di oggi e di ieri. Il tutto in un paese dove appena il 20 per cento dei ragazzi arriva a studiare al liceo”.

Gallo Fall vuole dare ai ragazzi senegalesi la stessa opportunità che ebbe lui, che andò in America, non giocò mai nella NBA, ma divenne scopritore di talenti (come il sopracitato Gorgui Dieng dei Timberwolves) e oggi è vicepresidente per lo sviluppo di Nba Africa. “Non voglio – ha detto Fall – che si scateni una corsa a trovare il prossimo grande talento africano. Per me il basket è un mezzo per avere maggiori possibilità di essere ascoltati dai ragazzi. Non vogliamo creare giocatori Nba, ma cambiare una cultura: una grande percentuale dei ragazzi che frequentano Seeds non avranno l’occasione di giocare in Nba, ma avranno la chance di avere successo nella vita”.

Costantino Muscau
c.muscau@alice.it

Nella foto in basso Masai Ujiri

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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