Speciale per Africa ExPress
Antonella Napoli
Roma, 4 luglio 2015
Quando il Segretario di Stato americano Colin Powell nell’agosto del 2004, tornando da una missione in Sudan, definì per la prima volta ciò che stava avvenendo in Darfur come “il primo genocidio del 21esimo secolo” si accesero all’istante i riflettori sul conflitto che dal febbraio del 2003 stava dilaniando la regione occidentale sudanese.
La presa di posizione statunitense apparve come il banco di prova per la comunità internazionale di essere in grado di fermare, compattamente, le atrocità di massa. Ma ben presto emerse l’ineluttabilità del fallimento dell’azione contro il regime del presidente Omar Hassan al-Bashir, ex generale giunto al potere nall’89 grazie a un colpo di Stato.
Oggi, 11 anni dopo il viaggio di Powell, quei riflettori sono spenti e l’attenzione mediatica sul dramma del Darfur è finita da tempo. Non sono però finiti i massacri, i soprusi, gli stupri e ogni genere di violazioni dei diritti umani contro la popolazione darfuriana che ormai è in condizioni al limite della sopravvivenza.
Tutto ciò a fronte del dispiegamento nella regione di una forza di pace ibrida Nazioni Unite/Unione Africana, composta da oltre 20mila uomini, che si è rivelata sin dal primo momento costosa e inefficace.
Per non parlare della beffa di un presidente sudanese in carica, con l’accusa da parte della Corte penale dell’Aja di essere un criminale di guerra e genocida, in grado di viaggiare con relativa libertà in Africa, come dimostra la recente visita in Sudafrica, e non solo, nonostante un mandato di arresto internazionale.
E in tanto in Darfur si continua a vivere nella paura e nella miseria.
A 12 anni dall’inizio del conflitto le stime Onu parlano di oltre 300mila vittime e di circa 6 milioni di persone bisognose di aiuti di ogni genere, di cui oltre il 30 per cento ospitate nei campi gestiti dall’agenzia dell’ONU OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs).
Nel primo semestre del 2015 ben 385mila sono stati i nuovi profughi a causa della recrudescenza del conflitto in molte aree della regione, che ha registrato il flusso di sfollati più consistente dal 2006 a oggi. Dall’inizio dell’anno le possibilità di assistenza delle centinaia di migliaia di nuovi rifugiati, per lo più donne e bambini, e a rischio in tutto il Darfur.
Le minacce sono sempre le stesse: insufficiente disponibilità d’acqua e di cibo, condizioni igienico sanitarie e sicurezza inadeguate. La mortalità continua a essere molto alta. In pochi superano i 50 anni mentre tra i bambini molti non raggiungono il sesto anno di vita. Malnutrizione e infezioni le principali cause di morte per i più piccoli.
Il settore sanità è quello che registra la maggiore criticità ed è considerato addirittura cronico dagli operatori umanitari sul campo che continuano a operare in un contesto difficile come testimoniano le continue espulsioni dal Paese.
La protezione della missione di peacekeeping è del tutto insufficiente. Continuano a registrarsi scontri armati che coinvolgono i civili soprattutto nel Nord Darfur ed episodi di crimini di massa, in particolare stupri, usati come arma di guerra.
Il 2 novembre del 2014, su segnalazione di alcuni rifugiati sudanesi in Italia, Italians for Darfur è stata la prima organizzazione a denunciare sul proprio blog lo stupro di massa a Tabit, un villaggio a nord di al-Fasher. Oltre 200 tra donne e bambine erano state violentate nella notte tra giovedì 30 ottobre e il primo novembre da militari governativi e milizie arabe, gli ex janjaweed.
Secondo i testimoni, il raid punitivo sarebbe stato conseguenza della scomparsa di un militare della guarnigione dell’esercito del Sudan di pattuglia nell’area. La forza Onu dispiegata in Darfur non ha potuto effettuare nell’immediato un sopralluogo e confermare, in un primo momento, l’episodio.
Dopo aver parlato nuovamente con abitanti del posto, senza la presenza di militari governativi, i militari del contingente internazionale hanno invece raccolto elementi che non hanno più lasciato dubbi su quanto fosse avvenuto a Tabit.
Human Rights Watch ha poi pubblicato l’11 febbraio di quest’anno una approfondita ricerca che ha evidenziato le responsabilità delle truppe dell’esercito del Sudan che avevano eseguito una serie di attacchi contro la popolazione civile della cittadina vicino al-Fasher, arbitrarie detenzioni, pestaggi e maltrattamenti di decine di persone oltre allo stupro di massa di donne e ragazze.
Le ricerche di HRW, condotte nei mesi di novembre e dicembre, si sono basate sulle interviste a 130 persone che hanno fornito i dettagli su quanto avvenuto.
Le operazioni militari sono avvenute in tre distinte fasi nell’arco di 36 ore: la prima è avvenuta nella notte di giovedì 30 ottobre, la seconda nella mattina del venerdì 31 ottobre e l’ultima a cavallo fra il 31 ottobre ed il primo novembre. HRW non ha trovato tracce di responsabilità da parte dei ribelli ma, soltanto, di azioni governative. Durante ogni attacco, i soldati hanno obbligato gli uomini ad abbandonare, sotto la minaccia di armi, le loro case per poter abusare delle loro mogli e figlie.
I militari hanno giustificato gli abusi dichiarando che le vittime fornivano aiuti ai guerriglieri coinvolti nelle operazioni contro il Governo.
E il mondo, nonostante le prove di questa come di altre atrocità perpetrate in Darfur, resta a guardare nel silenzio più colpevole e sconcertante che l’ignavia internazionale abbia mai manifestato.
Antonella Napoli
Giornalista e presidente di Italians for Darfur
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