Speciale per Africa Express
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 3 agosto 2015
Il generale Adolphe Nshimirimana, capo dell’intelligence del Burundi e alleato chiave del presidente Pierre Nkurunziza, è stato assassinato nella capitale Bujumbura nella tarda mattinata di domenica. Secondo fonti ufficiali burundesi citate da Jeune Afrique, l’ufficiale è stato ammazzato a colpi di razzi anticarro sparati contro la sua auto.
Nshimirimana, ex Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e braccio destro del presidente Pierre Nkurunziza, era considerato dai più il numero due del regime, il vero braccio militare del governo burundese: il presidente Nkurunziza, rieletto a fine luglio al termine di elezioni giudicate “deeply flawed” (in buona sostanza una farsa) dal governo degli Stati Uniti (che si è pronunciato con un tempismo perfetto, a urne aperte, informazione data alla popolazione burundese da RFI facendo scattare rivolte in tutto il Paese) era stato l’obiettivo di un tentativo di golpe a fine maggio, sventato proprio dall’intelligence guidata da Nshimirimana.
Molti giornalisti burundesi hanno indicato Adolphe Nshimirimana (nelle foto) come il mandante dell’omicidio di tre suore italiane, Olga Raschietti, Lucia Pulici e Bernardetta Boggian: le tre donne sarebbero state brutalmente massacrate perché erano venute a conoscenza di traffici illeciti in cui era implicato proprio Nshimirimana, che avrebbe sborsato 75 milioni di franchi (circa 45mila euro) agli esecutori materiali della strage. Informazione che forse il numero due del Burundi si porterà nella tomba.
Willy Nyamitwe, capo della comunicazione della Presidenza burundese, con un tweet lanciato nella tarda mattinata di ieri afferma di avere “perso un fratello”. La violentissima morte del numero due del Paese arriva ad appena una settimana dalla proclamazione del terzo mandato presidenziale per Nkurunziza e dopo pochi giorni dall’oramai famoso discorso di Obama sui “president for life”, nei quali il capo di Stato burundese rientra a pieno titolo: l’opposizione politica nel Paese, la società civile burundese, alcuni gruppi armati e diversi paesi occidentali.
Nel tentativo di placare le polemiche (interne ed esterne) il neo-terzo-eletto presidente decise di nominare Agathon Rwasa, leader dell’opposizione e principale contendente del potere di Nkurunziza, presidente del Parlamento di Bujumbura. Una mossa che sorprese molti e ma che il giornalista BBC Prime Ndikumagenge ha giudicato “di difficile comprensione”.
Dalla fine di aprile il Burundi gronda letteralmente sangue: centinaia di morti lungo le strade, massacrati durante le proteste contro la terza candidatura del Presidente Nkurunziza: secondo le Nazioni Unite dai primi di maggio sarebbero oltre 170mila persone ad aver abbandonato il Paese. Una vera e propria emergenza umanitaria e sanitaria, visto e considerato i numerosi casi di colera in molti villaggi in Tanzania dove si sono rifugiati i profughi burundesi.
Il terrore dal quale fuggono queste persone è quello della guerra civile. Il cessate il fuoco sancito nel 2003 fra il governo guidato da Buyoya e il gruppo di ribelli hutu più numeroso, il Conseil National pour la Défense de la Démocratie-Forces pour la défense de la démocratie (CNDD-FDD), che ha lanciato di fatto la carriera politica di Pierre Nkurunziza, non è stato in verità mai rispettato. Gruppi di ribelli estremisti hutu del Forces Nationales de Libération (FNL) si sedettero al tavolo delle trattative solo nel 2006, trattative naufragate miseramente alla fine del 2007.
Dal canto suo il presidente Nkurunziza non ha mai fatto nulla per riformare e pacificare effettivamente il Paese: i gravissimi scandali di corruzione insabbiati, la sua inadeguatezza politica e la fragilità dell’uomo, che ama mostrarsi invece come un vero e proprio dittatore, hanno incentivato, oltre alla fame ed alla disperazione, decine di migliaia di persone ad abbandonare tutto e rifugiarsi nei paesi vicini, che vivono una vera e propria emergenza umanitaria.
Il paradosso è che solo nel gennaio 2013 l’UNHCR gestiva il rimpatrio non volontario di centinaia di migliaia di profughi dalla stessa Tanzania: famiglie intere fuggite sin dai primi anni ’70, con figli nati nei campi profughi, costrette a tornare laddove non avevano più nemmeno un passato, figurarsi un presente, certamente non un futuro.
Andrea Spinelli Barrile
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