Il primo corre, corre (soprattutto in salita) al giro di Francia per diventare ricco e per il successo.
Gli altri corrono, corrono per la vita, per sfuggire da quella che per molti osservatori internazionali è la Corea del Nord-est Africa. Tra quelli che correvano per la vita c’erano anche i 366 migranti annegati nella strage del 3 ottobre 2013. Chi se li ricorda?
Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Milano, 17 luglio 2015
Giovedì 9 luglio scorso, Daniel Teklehaimanot Girmazion, nato il 10 novembre 1988 a Debarwa, cittadina a 25 km a sud di Asmara, è divenuto una celebrità planetaria.
Daniel Teklehaimanot Girmazion? Chi era, anzi chi è, costui?
Daniel Teklehaimanot Girmazion è il primo africano nero a indossare la maglia a pois. Dopo una lunghissima fuga alla sesta tappa del 102° Tour de France, questo giovanotto alto, (1,88 per 71 kg), ma non allampanato – scriveva Gianni Brera alludendo, però a Fausto Coppi – ha conquistato il simbolo riservato al miglior scalatore della corsa ciclistica più importante del mondo
Fino a quel giorno, Daniel, nel mondo degli sportivi bianchi, era noto a pochi appassionati di ciclismo, pur essendo stato diverse volte campione nazionale su strada e a cronometro. Da quel giorno, gli elogi e gli appellativi, magari con troppa enfasi e precipitazione (il Tour è lungo e le vere salite sono tutte nella seconda parte della Grande Boucle, come viene definita la corsa) si sono sprecati.
Forse perché corre con la MTN-Qhubeka, la prima squadra ciclistica realmente africana (ha sede a Città del Capo) invitata al Tour; forse perché Qhubeka in lingua xosa significa <avanzare>; forse perché la squadra , sponsorizzata dall’operatore telefonico diffuso in tutto il continente nero, è una fondazione che ha come obiettivo di donare biciclette alle popolazioni svantaggiate; o forse perché con quella maglia a pois Daniel fa la sua bella figura mediatica.
Fatto sta che, o per fascino personale, o per la forte identità e la vocazione umanitaria del team, via via è stato definito “Uomo simbolo; orgoglio africano e dell’Eritrea; emblema di un continente che si apre al ciclismo”. Da l’Equipe, il prestigioso quotidiani sportivo francese, al Washington Post , tutti ad accendere i fari su questo corridore.
Secondo lo studioso del ciclismo eritreo, Fikre Jesus Amakhazion, Daniel e il suo connazionale Merhawi Kudus, 21 anni, “portano al Tour i sogni di una nazione e le speranza di un continente”. Per non parlare dei fans eritrei che lo seguono sulle strade (qualcuno dice di essere venuto da Asmara apposta!, come avrà fatto?) e su Internet, sono impazziti.
Come è successo e succede da noi quando una provinciale emerge a livello nazionale nel calcio o nel basket. Pensiamo al delirio che ha colto recentissimamente i sardi, non certo famosi per la loro passione e abilità cestistiche, quando la squadra di Sassari ha vinto, nel giugno scorso, il titolo di campione d’Italia di pallacanestro.
Eppure Daniel in Africa non era proprio un carneade, a livello ciclistico. Come non lo era il ciclismo eritreo. Nato da famiglia agricola numerosa (sei figli maschi e sei figli femmine), Teklehaimanot ha cominciato a pedalare nel 2005 su una mountain bike.
Non deve meravigliare il suo amore per le due ruote in un Paese disastrato e tormentato come l’Eritrea. Le prime biciclette e la passione per le due ruote furono portate proprio da noi Italiani nel 1898 a Massaua, la prima gara fu organizzata nel 1937, ma con l’esclusione degli eritrei a causa della politica segregazionista fascista – ricorda l’accademico eritreo Fikre Jesus Amahazion, nel suo sito Pedaling History.
Nel 1939, contrordine camerati: il Duce decise che colonizzati e colonizzatori potevano, anzi dovevano, partecipare assieme a una gara di resistenza. Convinto che l’italica stirpe avrebbe stravinto facile! Invece dominò tale Ghebremariam Ghebru e mandò in frantumi il mito della superiorità romana.
Decenni di guerre e di sconvolgimenti, non hanno smorzato l’interesse per il pedale in Eritrea, Scrive ancora Fikre Jesus: “In Eritrea ci sono nove etnie, tre lingue, molte religioni e una sola passione: il ciclismo”. Ecco perché questo sport è stato definito “la quinta religione statale non ufficiale”.
Il governo, ovviamente, ci marcia: le ricorrenti vittorie degli atleti eritrei in Africa vengono esaltate dal governo, ai ciclisti viene concesso facilmente il visto per l’estero, l’attività dei corridori è considerata alla stregua di un servizio pubblico.
Il mito del momento, esaltato dagli espatriati e dai sostenitori del regime di Isaias Afeworki, presidente immarcescibile e dittatore di fatto, è il ventiseienne Daniel è stato campione nazionale su strada e cronometro; a 22 anni ha vinto il Giro del Rwanda; nel 2012 è stato il primo africano nero a concludere il giro di Spagna; quest’anno è stato il miglior scalatore al Criterium del Delfinato.
La svolta nella sua vita avvenne nel 2008. Al termine del giro della Costa d’Avorio, dove si classificò al quinto posto, fu invitato a frequentare a Aigle, in Svizzera, il Centro Ciclistico Mondiale dell’Unione ciclistica internazionale.
Lo scopo di questo centro elvetico è quello di favorire lo sviluppo del ciclismo in Paesi poveri come l’Eritrea. A scuola di ciclismo, Daniel ha imparato molto: tecnica, tattica, alimentazione, inglese (la sua lingua madre è il tigrinya). Il suo sviluppo e i suoi successi gli consentirono di essere arruolato prima nella società australiana Orica Green Edge, per il 2012 e il 2013, poi nella MTN-Qhubeka.
Ricorda l’uomo d’affari e manager Gerry Ryan, del team Orica-Green Edge, che lo ha “ceduto” al team sudafricano: “All’epoca Teklehaimanot si trovava a Canberra, in Australia, in un campo di addestramento. Non aveva una borsa, né bagagli. Possedeva un paio di pantaloni corti, una maglietta e lo spazzolino per i denti. Lo abbiamo rifornito di tutto il necessario e portato via da lì. Abbiamo scommesso su di lui. Vederlo andare in bici ora ci riempie di soddisfazione”s. Daniel Teklehaimanot, in attesa di essere messo alla prova sui Pirenei e sulle Alpi, ha anche imparato a essere diplomatico.
“Sono orgoglioso di quanto sto facendo. Grazie a ciò riusciremo a donare 5 mila biciclette ad altrettanti bambini africani”. Non una parola sulla situazione politica eritrea né sul tiranno Issayas Afeworek, al potere dal 1993, che sfrutta in patria il successo del giovane Daniel. E ancor meno un cenno alle migliaia di profughi suoi connazionali, che fuggono da quel paradiso di libertà e di floridezza che è l’Eritrea: 50 mila hanno chiesto asilo in Europa, il 23 per cento arrivati in Italia nel 2014 sono eritrei, nel 2015 sono già 10 mila gli eritrei sbarcati sulle nostre coste.
Proprio il 9 luglio, giorno di gloria per Daniel in Francia, in Italia a Roma veniva presentato il libro “Migranti e Territori”, del giornalista Emilio Drudi e del sociologo Marco Omizzolo in cui si ripercorre la diaspora silenziosa del popolo eritreo in fuga dal regime di Isaias Afeworki.
“Esiste un servizio militare a tempo indeterminato che dura fino ai 55 o 60 anni. E’ per questo che un giovane su otto scappa. E’ uno Stato che si sta svuotando delle proprie energie, anche se nessuno parla di questo orrore”, ha affermato Drudi. D’altra parte le 500 pagine del rapporto dell’Onu pubblicato lo scorso mese e rilanciato anche da Africa ExPress, non lasciano dubbi : “Il dittatore eritreo non ha solo violato i diritti umani imponendo un servizio militare obbligatorio, ma ha negato qualsiasi forma di protesta, creando un clima di terrore in cui il dissenso è sistematicamente represso, la popolazione è costretta al lavoro forzato e a carcerazioni arbitrarie, tanto da poter parlare di crimini contro l’umanità” .
Un giornalista francese ed esperto del Corno d’Africa, Leonard Vincet, non se la è sentita però di dare la croce al giovane ciclista: “E’ un’icona per tutti gli eritrei, quelli in patria e quelli della diaspora che sono fuggiti – ha commentato – ma tiene le sue opinioni politiche per sé. Come mi disse un alto funzionario oggi disertore, laggiù tutti fanno finta”.
Ed è facendo finta anche nel mondo occidentale che il dramma quotidiano di migliaia di persone resta invisibile. E ci vuole il Tour de France per squarciare il velo nero del silenzio.
Costantino Muscau
c.muscau@alice.it
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