Speciale per Africa ExPress
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 17 giugno 2015
“Ieri pomeriggio i militari ci hanno fatto scendere tutti nella piazza d’armi del carcere – riferisce trafelato il nostro contatto, in una disturbatissima conversazione telefonica. – Ci hanno fatto posizionare in fila lungo il perimetro del cortile. Molti di noi tremavano come foglie, c’era chi piangeva, chi era disperato. Non sappiamo mai cosa potrebbero farci questi criminali”.
Secondo quello che racconta un detenuto maliano che chiameremo (nome di fantasia) Mamadou e che vive nell’inferno di una delle carceri della Guinea Equatoriale, un prigioniero viene preso dal mucchio, a caso, e messo al centro della piazza d’armi mentre i militari minacciano e colpiscono con bastoni molto flessibili gli altri detenuti, costretti a guardare: “Cani – gli urlano – guardate ciò che vi faremo se non ubbidite”. Tanto, pensa Mamadou, lo farebbero lo stesso.
Il recluso prescelto ha l’orrore dipinto sul volto, la sua espressione è resa mostruosa da una smorfia di paura: il terrore gli paralizza i muscoli rendendolo ancora più vulnerabile. E’ incredibile come reagisce certe volte il nostro corpo, quasi offrendosi, immolandosi, agli aguzzini.
“Il problema – spiega un avvocato equatoguineano che lavora con molte ong per la tutela dei diritti umani in Guinea Equatoriale e che vuole restare anonimo – è che il sistema penitenziario dipende amministrativamente dal ministero della Giustizia ma la gestione delle carceri è affidata totalmente ai militari, quindi al ministero della Difesa. Dunque se si chiede conto al ministro della Giustizia di quello che accade nelle carceri, delle violenze e delle torture, succede che i funzionari devono prima informarsi, perché non ne sanno nulla”.
La realtà carceraria è peculiare in tutti i paesi del mondo. Nel regime della Guinea Equatoriale però il carcere è il luogo dell’oblio più oscuro, nel quale spesso si entra sani e si esce distrutti nel fisico e nella mente: in Guinea Equatoriale, a parte qualche raro caso, ciò che avviene in carcere resta tra le mura del carcere. Che grondano sangue, tanto sangue.
Secondo il CORED, un soggetto politico equatoguineano costituito all’estero da 7 associazioni in esilio che si oppongono al regime, dal 1968, anno dell’indipendenza dalla Spagna, sono oltre 50 mila i morti ammazzati (quelli con un nome ed un cognome) per mano o per ordine diretto di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo. La diaspora guineana all’estero (la metà dei nati in Guinea Equatoriale oggi si trova in esilio) descrive questi morti come “genocidio silenzioso”. Altre decine di migliaia sarebbero i morti ammazzati senza nome: desaparecidos, fatti a pezzi e dati in pasto alle bestie che popolano la foresta, gettati dal burrone Kope (una sorta di Rupe Tarpea africana). E chissà quanti, tra i familiari delle vittime che ancora risiedono nel Paese, non hanno mai avuto il coraggio di denunciare le violenze, i soprusi e gli omicidi delle autorità.
Mamadou continua il suo raccapricciante racconto: “Il detenuto viene fatto sdraiare in terra, prono, le braccia tese. Le mani vengono fatte poggiare su un mattone di cemento, indicato da una guardia con il tintinnio di un machete sbeccato. Il loro capo, un sergente, comincia a saltare con forza sulle mani del povero disgraziato, spezzandogliele. Le urla paralizzano il pubblico, costretto a guardare. Il sergente salta, una, due, tre volte. E ancora. E’ affidato a lui questo lavoro sporco, perché lui ha gli stivali mentre gli altri sono in ciabatte. E i detenuti, cenciosi e impauriti, vengono costretti a guardare”. I pestaggi, le torture pubbliche, servono ai militari come monito, un modo come un altro per mantenere il controllo della paura all’interno delle carceri.
Andrea Spinelli Barrile
aspinellibarrile@gmail.com
Skype: djthorandre
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