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Non c’è soluzione per la crisi libica, solo giravolte e ipocrisia

EDITORIALE
Barbara Ciolli
9 giugno 2015

Quasi 3.500 migranti, ha allertato questo week-end la nave da guerra inglese Hms Bulwark in missione al largo della Libia, alla deriva prima che un’operazione congiunta dell’Unione europea li raccogliesse. Paradossalmente la notizia dell’ultima emergenza nel Mediterraneo è stata data dal governo che più preme su Bruxelles per inasprire i respingimenti e lanciare l’intervento militare per colpire, in Nord Africa, i barconi e le reti dei trafficanti. Il ministro della Difesa britannico Michael Fallon, quel giorno a bordo della vecchia ammiraglia della Royal Navy, ha richiamato le “altre Marine europee a venire ad aiutare in tempi brevi”, intimando “all’Europa di mettersi d’accordo, per affrontare il problema alla radice”. Pena “ondate colossali di migranti”.

Fallon è un esponente del governo di David Cameron – rieletto a maggioranza schiacciante dopo aver promesso “meno Europa” agli inglesi – che rifiuta la spartizione tra i Paesi UE in quote obbligatorie dei rifugiati, proposta dalla Commissione di Bruxelles. Come la Francia, la Gran Bretagna è anche lo Stato europeo che non solo nel 2011 partì in quarta (con i caccia e una controversa risoluzione ONU) per rovesciare Muammar Gheddafi. Ma che, quattro anni e migliaia di morti dopo, insieme all’Italia spinge per una nuova missione internazionale contro barconi e criminali, inclusiva di azioni a terra. In sostanza un’altra, possibile guerra in Libia dei governi con maggiori interessi nel Paese. Una seconda risoluzione è in stesura a Palazzo di Vetro.

È noto come, prima della Primavera araba, la Francia di François Sarkozy avesse relazioni amichevoli con Gheddafi, tant’è che il suo ex ministro dell’Interno Claude Guéant è stato fermato dalla gendarmerie nell’ambito dell’inchiesta sui sospetti soldi di Gheddafi per la campagna presidenziale di Sarkozy. La Gran Bretagna, poi, nonostante la strage di Lockerbie ospitava cospicua parte del patrimonio di Gheddafi, il figlio Saif al Islam finanziava la London School of Economics e, tuttora, l’isola ha in pancia beni congelati per miliardi di sterline della cerchia più stretta dell’ex raìs. Dell’Italia sono infine arcinoti il primato dell’Eni in Libia per le forniture di gas e petrolio, il trattato di amicizia tra Silvio Berlusconi e Gheddafi inclusivo della “lotta all’immigrazione clandestina” e i grandi, reciproci investimenti industriali e finanziari.

Tutta questa cornice è stata spezzata dalla guerra del 2011 in Libia “per la democrazia”. Ma resisi conto del disastro alimentato, ora i tre capitani coraggiosi (Italia, Gran Bretagna e Francia) vogliono tornare ad agire. Stavolta, secondo la logica del meno peggio, dalla parte del governo esiliato di Tobruk attorno al quale si sono raccolti i vecchi gheddafiani e che, attraverso la milizia alleata di Zintan, tiene prigioniero l’erede Saif. In questo modo, con la scusa della guerra ai barconi, si progetta (ambiziosamente) almeno di riportare un minimo di stabilità nel Paese, allontanando lo spettro dell’Isis di fronte a Lampedusa e facendo ripartire i grandi business in Europa con gli asset e i patrimoni bloccati del vecchio regime.


L’alternativa è una Libia in mano agli islamisti di Tripoli e Misurata, nell’Ovest del Paese dove, tra l’altro, l’Italia è più presente nell’indotto degli idrocarburi: governo e giunte esposti alle infiltrazioni degli estremisti simpatizzanti dell’Isis, specie – come sta accadendo – con l’acuirsi della lotta fratricida con Tobruk per il possesso dei miliardi di Gheddafi e delle risorse libiche. Parte delle milizie jihadiste o vicine ai jihadisti sono state e vengono, peraltro, quantomeno già tollerate dalle società straniere presenti sui territori da loro controllati, pena la sopravvivenza degli impianti e delle relazioni economiche in atto. Con la radicalizzazione dell’islam in corso in Nord Africa e in Medio Oriente, si rischia di finire per finanziare futuri affiliati di al Qaeda e dell’Isis.

Ecco perchè  come per la crisi dei migranti – ormai non c’è soluzione, men che meno democratica, per la crisi libica. O si appoggia un nuovo regime, oppure si rischia di sostenere gruppi terroristici. Ma la storia insegna che anche appoggiare un governo militare che reprime duramente le opposizioni, come in Egitto in passato e anche adesso con il presidente-generale Abdel Fattah al Sisi, aumenta la spirale di odio e la radicalizzazione degli islamisti. Quanto alle roboanti dichiarazioni UE sui migranti, è lapalissiano che distruggere i barconi in Libia sia una pezza superficiale e neanche facile da mettere: anziché risolvere il problema lo si devia, chiudendo gli occhi sulle cause profonde che lo originano.

Per il britannico Fallon,“andare alla radice” significa solo “capire chi sono i responsabili del traffico di esseri umani, come fanno i quattrini e spazzarli via”. Ma in quasi 30 anni di morti nel Mediterraneo, l’intelligence dei colonialisti che hanno aizzato le guerre in Africa e in Asia nei Paesi da dove partono le “ondate colossali” di migranti non hanno capito da dove viene il male, né chi ci si arricchisce? E dei migranti salvati “in tutta velocità” dalla Hms Bulwark chi se ne farà carico?

Barbara Ciolli
barbara.ciolli@tin.it
@BarbaraCiolli

 

Redazione Africa ExPress

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