Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
1 giugno 2015
La missione dell’Unione europea (UE) contro i barconi in Libia apre la strada a un secondo, possibile intervento militare. In caso contrario non si sarebbe arrivati a smuovere il Consiglio di Sicurezza dell’ONU con una risoluzione che chiede il ricorso alla forza (capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite), come contro Muammar Gheddafi nel 2011. La giustificazione è di usarla per distruggere o neutralizzare le navi: “Il sequestro delle navi dei trafficanti dipende dalle leggi degli Stati membri e/o dalle Risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di cui al capitolo VII della Carta”, è scritto nel documento riservato UE, diffuso da Wikileaks, sulla missione Eunavfor Med a guida italiana per fronteggiare l’emergenza migranti.
Il primo step dichiarato dell’European Union Military Committee (EUMC), che riunisce i Capi di Stato maggiore dei Paesi UE, è far partire una ricognizione d’intelligence per capire bene quel che, dopo 30 anni di sbarchi e migliaia di morti nel Mediterraneo, ancora non si sa: cioè come funzionano le rotte delle tratte di esseri umani verso il Nord Africa, quali criminali le hanno in mano e, dato non secondario, quanta popolazione comune coinvolgano. Ma diversi passaggi del testo UE, scritto mentre è in via di stesura la risoluzione per l’ONU, e le modalità scelte per presentarlo lasciano chiaramente la porta aperta a una missione internazionale più ampia.
Intanto si cerca un avallo più largo di quello dell’Unione Europea e anche delle Nazioni Unite. Nel documento UE viene auspicata “l’interazione essenziale” con partner quali la Nato, l’Unione africana, la Lega Araba, con singoli Paesi come l’Egitto e la Tunisia. E, dovesse mai emergere, anche con un governo legittimo libico.
A maggio i Capi di Stato maggiori di Egitto, Giordania, Sudan, Bahrein, Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati arabi hanno discusso al Cairo di un intervento militare in Libia appoggiato da Italia e Francia. La Nato è “pronta dare un contributo all’UE, per il rischio di infiltrazioni di terroristi sui barconi”. E il governo libico filo-egiziano di Tobruk riconosciuto dalla comunità internazionale (quello islamista di Tripoli lo è dalla Corte suprema libica) ha chiesto alla “Lega Araba e al Consiglio di Sicurezza dell’ONU passi concreti e urgenti per la guerra al terrorismo”.
Rompendo la linea del rifiuto, a guerra ai barconi annunciata il governo di Tobruk ha anche inviato a Palazzo di Vetro una proposta di “cooperazione con l’Unione europea” per un “piano d’azione che sradichi il flusso di migliaia di persone verso l’Europa”. Sia il ministro della Difesa italiano Roberta Pinotti sia il titolare della Farnesina Paolo Gentiloni si erano espressi a favore di truppe in Libia. E nel documento dei vertici militari UE si è poi ammesso – anche per aggirare il veto russo a raid contro i barconi – “l’uso della forza, specialmente durante le attività come l’imbarco, quando si opera sulla terra o in prossimità di coste non sicure o durante l’interazione con imbarcazioni non adatte alla navigazione”.
Boots on the ground, uomini a terra con “regole di ingaggio robuste e riconosciute”. Francia e Gran Bretagna, i due Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che nel 2011 fecero partire i caccia per rovesciare Gheddafi, sono tornate in prima linea. Non vogliono spartirsi i richiedenti asilo con gli altri Paesi dell’UE, ma aiutano l’Italia a scrivere la bozza di risoluzione per agire militarmente.
Una famosa regola del giornalismo anglosassone dice follow the money, segui i soldi. E nella Libia post Gheddafi, la guerra tra cosiddetti islamisti e cosiddetti laici nella quale si è innestato l’ISIS è, prima di tutto, una guerra per il petrolio e i miliardi del vecchio regime. Gli interessi sono locali e sovranazionali. Franato il processo democratico, si sono infatti arenati anche i procedimenti interni e internazionali per la confisca dei beni dell’ex rais. Saif al Islam, erede politico di Gheddafi, sa dove sono i soldi, per esempio. Ma è detenuto dalle milizie di Zintan alleate con il governo di Tobruk, che non hanno alcuna intenzione di farlo processare a Tripoli.
Entrambi i governi libici in guerra vogliono mettere le mani sul tesoro di Gheddafi. Negli anni la Procura generale di Tripoli ha inviato richieste in Inghilterra, Scozia e alle Isole vergini, per tracciare anche gli asset delle famiglie più vicine all’ex rais, la cerchia dei cosiddetti “compagni del leader”, in aggiunta ai beni dei Gheddafi congelati da Londra per un valore di 1,6 miliardi di sterline. Altre lettere della Procura generale sono partite verso Malta, dove la società Capital Resources – attuale punto di riferimento degli uomini d’affari libici alla Valletta -, del defunto figlio Mutassim Gheddafi, avrebbe veicolato parte del patrimonio famigliare all’estero.
Recentemente è poi spuntato il National Board for the Following Up and Recovery of Libyan Looted and Disguised Funds, che rivendicando legami con il governo di Tobruk ha invece messo gli occhi sui miliardi tra denaro, oro e diamanti che il gruppo sostiene essere stati spostati dai Gheddafi in Sud Africa. Quasi 180 miliardi di dollari, ma per gli Usa potrebbero essere molti meno, probabilmente un paio. Due società – l’opaca Washington African Consulting Group con sede in Texas e la maltese Sam Serj – si sono presentate a Johannesburg come facenti capo al board e “unici legittimi rappresentati del Governo libico”, smentite poi anche da alcuni funzionari di Tobruk.
Siccome le controparti e l’ONU temono patacche o strumentalizzazioni è tutto bloccato. Anche in Italia il Ministero degli Esteri ha stoppato la Corte d’Appello di Roma sulle pretese avanzate da organismi libici di dubbia legittimità dei circa 2 miliardi di euro accumulati dall’ex raìs nel Paese, tra case, terreni e quote azionarie in Fiat, Juventus, Finmeccanica, Eni e Unicredit. Tutto è fermo. La quota di Unicredit (1,2%, circa 500 milioni di euro), prima della guerra in mano al fondo sovrano della Libyan Investment Authority (LIA), risulta nel concreto parcheggiata in Bahrain, in attesa di tempi migliori.
Sdoganare come partner di un nuovo intervento militare in Libia il governo di Tobruk, composto e sostenuto anche dagli ex gheddafiani, farebbe tornare questi miliardi nelle mani dei vecchi “compagni del leader”. Ma in compenso i soldi libici che arricchivano compagnie e gruppi finanziari europei tornerebbero a girare.
Gli interessi sono grandi. Il business del petrolio non si è mai arrestato. L’italiana Eni, leader in Libia, ha dichiarato che, nonostante i tre anni di guerra tra milizie, le operazioni proseguono “normali”: 300 mila barili al giorno come ai tempi di Gheddafi. A 140 chilometri dalle coste libiche, il Cane a sei zampe ha recentemente annunciato la scoperta di un nuovo giacimento offshore di gas. E sono note le mire sugli idrocarburi della Cirenaica, nell’Est meno sfruttato della Libia, di Gran Bretagna e Francia.
Con gli Usa, puntavano a far fuori Gheddafi per stringere poi relazioni economiche con i ribelli libici. Ma con il terrorismo islamico alle porte dell’Europa, sono pronte a tornare dall’altra parte. La partita è ancora aperta. Safia Farkash, vedova di Gheddafi riparata in Oman, ha nominato come suo legale una società di diritto greco per seguire il contenzioso di Tripoli sulla maltese Capital Resources. Un altro pezzo grosso, il cugino di Gheddafi ed ex ufficiale dell’intelligence Ahmed al Dam, è al Cairo liberato dai militari egiziani dopo il golpe, e spera in una svolta.
Barbara Ciolli
barbara.ciolli@tin.it
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