Speciale per Africa ExPress
Andrea Spinelli Barrile
Latina, 20
maggio 2015
Ieri, 19 maggio, Roberto Berardi ha atteso tutto il giorno che la porta della sua cella si aprisse e che una mano gli venisse tesa per condurlo finalmente verso la tanto agognata libertà. Un’attesa lunga e drammaticamente vana.
Ieri, 19 maggio, l’imprenditore italiano incarcerato 2 anni e 4 mesi fa a Bata, in Guinea Equatoriale, ha visto estinguersi la pena carceraria e protrarsi, incredibilmente, la sua detenzione: malato di malaria, allo stremo delle forze dopo una detenzione che lo ha provato, e continua a provarlo, nel corpo e nella psiche, Roberto Berardi ieri non ha avuto nemmeno la cortesia di essere avvisato che nessuno sarebbe andato a prenderlo. Semplicemente, giunta la notte, ha compreso che tutti i sogni, le speranze e le promesse si erano drammaticamente infranti.
Ieri, 19 maggio, una piccola rappresentanza diplomatica italiana, il cancelliere Roberto Semprini ed il console Massimo Spano, accompagnata dal legale equatoguineano di Berardi, Ponciano Mbomio Nvò, si è recata al tribunale di Bata per ritirare l’istanza di scarcerazione che il giudice tutelare avrebbe dovuto preparare dopo la sollecitazione inoltrata dal legale una quindicina di giorni fa.
Dopo ore di anticamera a causa di un ritardo nel risveglio dello stesso giudice i tre sono stati costretti a tornarsene a casa con le pive nel sacco perché il tribunale non riconosce, nel conteggio dei giorni di detenzione, la carcerazione preventiva dal 19 gennaio 2013, giorno dell’arresto di Berardi, al 7 marzo 2013, quando è stato lo stesso tribunale, con atto pubblico, a ordinarne la carcerazione.
Oltre a questo il tribunale ha implicitamente riconosciuto un abuso commesso dalla polizia, che ha mantenuto Berardi in stato di fermo per tutto quel periodo nonostante potesse legittimamente farlo solo per 72 ore: dal 19 gennaio, giorno del suo arresto, e per 23 giorni l’imprenditore è stato detenuto al commissariato di Bata e, successivamente, agli arresti domiciliari fino al 7 marzo, giorno in cui è stato trasferito al carcere di Bata Central su ordine dello stesso tribunale. Un segretario della cancelleria dell’autorità giudiziaria ha spiegato ieri alle autorità diplomatiche italiane e al legale africano che il tribunale non è responsabile degli abusi commessi dalla Polizia e che quindi i 2 anni e 4 mesi di pena si estingueranno in data 7 luglio 2015.
Si tratta dell’ennesimo abuso giudiziario da parte delle autorità della Guinea Equatoriale ma anche l’ennesimo clamoroso insuccesso della diplomazia italiana, che ieri è stata letteralmente presa a pernacchie dalla controparte africana, la quale per 15 giorni non ha risposto né accennato ad alcuna criticità sull’istanza di scarcerazione presentata dal legale.
Ieri si sono tirate le fila di un lavoro diplomatico di due anni e quattro mesi che, se consideriamo i risultati raggiunti, è stato pressoché nullo. Gli eventi drammatici e grotteschi occorsi ieri in Guinea Equatoriale smentiscono alla prova dei fatti le dichiarazioni di appena 15 giorni fa del viceministro degli Esteri Lapo Pistelli, il quale ascoltato il 5 maggio scorso in Commissione Esteri alla Camera dei Deputati aveva rivendicato “la perdurante intensa attività esplicata dalla Farnesina sin dall’inizio della vicenda” negando ogni tipo di omissione da parte del governo e precisando anzi “come il governo si sia speso in modo costante e fin dall’inizio della vicenda, sia in sede diplomatica che politica”.
Nel suo intervento in Commissione il viceministro degli Esteri si contraddice, rivendica l’azione di sostentamento che il governo garantisce a tutti i connazionali detenuti all’estero, oltre 3.300 persone, ma ricorda anche “le condizioni ‘a parte'” cui versa lo stato di diritto in Guinea Equatoriale, utilizzando la vicenda di Roberto Berardi come “monito a tutti i nostri concittadini a chiedersi sempre quali siano le condizioni del Paese in cui si recano a svolgere la propria attività imprenditoriale” dimenticando che è il governo di cui fa parte a indicare questi paesi africani come la nuova opportunità di crescita delle imprese italiane ma auspicando magnanimamente che la vicenda Berardi possa concludersi il 19 maggio “nel modo più felice”.
Ogni virgolettato qui sopra riportato si è infranto alla prova dei fatti, che hanno dimostrato, in quella che qualcuno definisce “società delle conseguenze”, come in realtà la diplomazia italiana abbia seminato e raccolto il nulla.
Roberto Berardi è anche Lapo Pistelli, perché al posto dell’imprenditore italiano laggiù ci potrebbe essere chiunque e questo la diplomazia e il governo italiano sembrano dimenticarlo: il viceministro ricorda, nella sua audizione in Commissione, che Berardi è stato condannato al termine di un processo “ai sensi della legge penale vigente” nel piccolo paese africano omettendo però che quel processo sarebbe dovuto celebrarsi in sede civile, come spiegato più volte dal suo legale equatoguineano che il corpo diplomatico non ha mai contattato prima del novembre 2014, 22 mesi dopo l’arresto.
Per questo motivo il fratello di Roberto Berardi, Stefano, ha chiesto sobriamente le dimissioni del vice ministro Lapo Pistelli e di Cristina Ravaglia, direttrice generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie, richiamando puntualmente le onorevoli e dignitose dimissioni rassegnate dall’allora ministro degli Esteri, Giulio Terzi, dopo la decisione di riconsegnare i marò all’India.
Se mai uscirà vivo dal lager in cui vive da due anni e quattro mesi Roberto Berardi lo dovrà unicamente alle proprie forze, come hanno ricordato sia Riccardo Noury di Amnesty International sia Luigi Manconi, Presidente della Commissione diritti umani del Senato, in due messaggi inviati alla famiglia nel giorno precedente la presunta scarcerazione.
Andrea Spinelli Barrile
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