Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
18 maggio 2015
La missione UE a guida italiana per distruggere i barconi dei trafficanti è al vaglio del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Tra le misure, a breve e a lungo termine, per affrontare l’emergenza delle migliaia di migranti nel Mediterraneo, la guerra agli scafisti e alle loro imbarcazioni in Libia è la più probabile a essere autorizzata, nonostante per diversi addetti ai lavori – inclusi i vertici delle Nazioni Unite – sia una mossa inutile e anche pericolosa. Sulla redistribuzione dei rifugiati tra i 28 Stati membri, Gran Bretagna, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno infatti innalzato le barricate. Mentre del piano per bombardare i barconi gli inglesi (membri permanenti del Consiglio di sicurezza) hanno accettato di farsi promotori, aiutando l’Italia a scrivere la bozza di risoluzione.
L’Alto rappresentante per la Politica estera UE Federica Mogherini ha esortato ad “agire insieme e subito”, “possibilmente” in un quadro di legalità internazionale, “distruggendo i barconi”, una “situazione eccezionale richiede misure eccezionali”. Ma le perplessità sulle conseguenze, oltre che sulle modalità, dell’intervento sono molte. Intanto i due governi libici che si combattono con milizie e anche con raid aerei dicono categoricamente no ad azioni unilaterali esterne: unico punto sul quale si trovano d’accordo. “Non accetteremo mai che l’Europa bombardi presunte basi di trafficanti di esseri umani. Tripoli si opporrà”, ha dichiarato il ministro degli Esteri islamista Muhammed el Ghirani. “È un’idea stupida, non siamo neanche stati consultati”, ha detto l’Ambasciatore all’ONU Ibrahim Dabbashi del governo di Tobruk.
Un mandato attraverso il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, com’è nelle intenzioni, permetterebbe incursioni in acque e suolo libici anche senza il loro permesso. Il testo, in via d’elaborazione, richiederebbe la legittimazione dell’ONU a operazioni sia in acque internazionali sia nelle acque e nei porti libici, con la possibilità di far scendere truppe speciali per neutralizzare barconi. Il veto della Russia ai raid aerei apre infatti la strada scivolosa ad azioni a terra, oltre che della Marina. Il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha smentito “l’intervento militare” (“con la missione UE e l’eventuale risoluzione ONU si autorizza la confisca e il sequestro dei mezzi in mare e la loro individuazione in acque territoriali attraverso meccanismi di intelligence”). Ma il ricorso al Capitolo VII, come fu nel 2011 contro Muammar Gheddafi, autorizza l’uso della forza.
“Con una risoluzione delle Nazioni Unite si potrà agire, ma l’intervento è mal congegnato. Anche a breve termine la crisi libica si aggraverà”, è dell’avviso Mattia Toaldo, analista di Libia all’European Council on Foreign Relations di Londra. “Nel 2011 l’azione militare veniva richiesta da un soggetto libico, ossia i ribelli. Oggi no, un aspetto non secondario”, ci spiega. “Tecnicamente poi il provvedimento è inefficace. Un carico di migranti frutta ai trafficanti circa 800 mila euro, quando un barcone ne costa 20 mila. Anche affondandone più di uno, il gioco varrà sempre la candela”. E la situazione dei migranti in Libia è talmente disperata, che “arrivati sulla costa vorranno partire comunque, con ogni mezzo e in ogni modo”.
Per Toaldo, “andare a sparare contro i barconi equivale a combattere la mafia come si faceva alla fine del 1800. Un modo più lungimirante per contrastare le reti criminali sarebbe invece parlare e riuscire a stringere accordi con le comunità locali”. Si dimentica infatti che la precarietà della guerra civile libica incentiva le economie illegali: “Le strutture del business non sono sempre verticali. Esistono legami molto forti tra i trafficanti e alcune milizie libiche, per esempio, e ci sono famiglie che affittano locali per i migranti in attesa”. La guardia costiera di Tripoli insiste nel dire che “non esistono delle vere e proprie flotte o equipaggiamenti da distruggere”. E anche per gli interlocutori di Tobruk è “impossibile riconoscere dalle altre le barche usate per i migranti”.
Abu al Qseem Krer, del Consiglio municipale di Sabratha, tra i centri costieri da dove partono i barconi, a ovest di Tripoli fino a Zuara, ci conferma “l’alto rischio di sbagliare target, colpendo i pescatori. Finché non è carica, non si può essere sicuri che si tratta di una nave di migranti”. Anche il Segretario dell’ONU Ban Ki-moon giudica la “misura inappropriata. Rischia di danneggiare l’economia locale della pesca, una risorsa importante per la Libia”. Francesco Rocca, vice Presidente della Federazione Internazionale della Croce e Mezzaluna Rossa, è andato a Palazzo di Vetro per persuadere la comunità internazionale a “ trovare una soluzione più articolata di bombardare queste piccole barche. Così non si risolve la crisi dei rifugiati”.
“Il problema è molto più grande e non interessa solo la Libia”, anche per l’amministratore libico. “Il territorio di Sabratha non è l’unico del traffico di questi barconi. Eliminandoli in un punto, le reti si sposteranno in altre zone, anche fuori dalla Libia. Delle navi vengono comprate in Egitto e in Tunisia. Dall’Egitto e dalla Turchia sono anche già salpati dei barconi. In generale i migranti continueranno comunque ad arrivare in Nord Africa e da lì a voler andare in Europa”. Militari come il generale francese Jean-Paul Thonier definiscono “illusorio” il piano anti-barconi. Anche per l’ex capo di Stato maggiore dell’aeronautica Vincenzo Camporini l’imperativo dell’UE “identificare, catturare e distruggere”, in agenda al Consiglio degli Esteri europeo del 18 maggio, è una semplificazione. “Per colpire in modo mirato con delle munizioni guidate, in un ambiente civile, c’è bisogno di uomini a terra, il che è impensabile”.
Comunque la si voglia chiamare, aggiunge il generale italiano, “è sempre un atto di forza in un territorio che non è il nostro”. Toaldo ricorda come, per l’emergenza dall’Albania, “un’operazione del genere fu svolta in sordina”. Nel caso della Libia invece “si è arrivati a proporre una risoluzione dell’ONU, dopo che per mesi esponenti del governo italiano hanno prospettato un intervento militare”. Truppe anche a terra, avevano ipotizzato Gentiloni e il Ministro della Difesa Roberta Pinotti prima che il premier Matteo Renzi frenasse. Ora contro barconi e scafisti, sulla stregua della missione antipirateria Atlanta in Somalia, l’Italia vuole essere in prima linea, con le navi anfibie della Marina e la portaerei Cavour. Per coordinare l’operazione si studia un Concetto di gestione di crisi (CMC) con base a Roma. Regno Unito, Francia e Spagna sarebbero già della cordata.
Tra gli occidentali, l‘Italia gode di maggiore protezione da parte delle milizie libiche, in virtù dei rapporti privilegiati tra i due Paesi . L’Ambasciata a Tripoli è rimasta aperta fino all’ultimo quando le altre, bersaglio di attentati, sgomberavano. “Abbiamo buone relazioni con l’Italia e anche con la Germania, la Francia e altri Paesi europei. Ci teniamo, se la Libia riparte è nell’interesse di tutti. Ma un nuovo intervento militare renderebbe rischioso lavorare per le compagnie straniere, si rovineranno i rapporti economici”, commenta Krer. “Purtroppo in questo momento non abbiamo una Marina capace di contrastare le partenze dalla costa e per la Libia è anche difficile bloccare, a sud, l’ingresso dei migranti dall’Africa centrale”, conclude l’amministratore di Sabratha. La stabilità è un miraggio, ma un “modo efficace per aiutare l’Europa nell’emergenza sarebbe poter agire a livello centrale, in coordinamento con le altre forze dei Paesi arabi del Nord Africa con un piano regionale”.
Barbara Ciolli
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