Guinea Equatoriale omicidi sospetti, repressione e false aperture verso gli studenti

Speciale per Africa ExPress
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 8  aprile 2015

Prove di dialogo tra regime e studenti in Guinea Equatoriale, un fatto, questo, che in molti pensano sia solo l’ennesima mossa del clan Obiang per mescolare le carte confondendo il quadro e annebbiando le informazioni provenienti dal paese, sempre più nella morsa del controllo militare nguemista.

Nonostante la liberazione, lo scorso 6 aprile, di 56 studenti arrestati durante le proteste del 23 marzo scorso a Malabo, il regime continua a mantenere il blocco di internet, impedendo l’accesso ai social network a chi vive nel Paese e garantendo comunicazioni a singhiozzo anche sulle linee telefoniche: anche noi di Africa-ExPress, che riceviamo informazioni direttamente dal Paese, riscontriamo problemi di comunicazione con la Guinea Equatoriale, che causano ritardi, anche di giorni, nelle comunicazioni.

I 56 studenti liberati erano stati arrestati, torturati e costretti con la forza a rivelare i nomi dei responsabili della rivolta studentesca, accusati di “destabilizzare la pace”: sono stati liberati grazie alle notizie pubblicate da qualche media europeo grazie alle informazioni di Diario Rombe, un network di equatoguineani all’estero con sede in Spagna.

Ieri mattina il presidente-dittatore Teodoro Obiang Nguema Mbasogo ha incontrato all’univestità di Malabo alcuni studenti mostrando un’insolita apertura, che a chi è poco dentro le faccende della Guinea Equatoriale potrebbe sembrare addirittura un evento storico: Obiang ha invitato gli studenti a “tornare alla normalità”, bacchettando il ministro dell’istruzione Lucas “Lukito” Nguema Esono Mbang e promettendo che nei prossimi giorni sarà pubblicato l’elenco dei beneficiari delle borse di studio, che sembra saranno persino più corpose.

I “figli di Obiang”, così viene definita la gioventù universitaria equatoguineana nel lessico del regime, sono stati dunque perdonati, ed anzi premiati, dal “padre” Teodoro.

A ben vedere però il discorso di Obiang (definito “dialogo” dalla propaganda) non conteneva nulla di nuovo: il dittatore, rivolgendosi agli studenti, ha infatti ricalcato l’auspicio già manifestato nei giorni scorsi dal suo ministro dell’istruzione, un “ritorno alla normalità”, che è proprio la realtà quotidiana contestata dagli studenti.

Valgono nulla le dure parole di Obiang contro il suo ministro: tale dialettica rientra perfettamente nel più classico dei comportamenti propagandistici di un regime dittatoriale, dove il capo critica duramente e addirittura minaccia (se non elimina) i suoi alti funzionari nel nome di non si sa bene quale giustizia.

A dimostrazione del fatto che le belle parole, in Guinea Equatoriale, restano tali ci sarebbero le drammatiche notizie provenienti da alcuni contatti sul posto di Africa-Express: ieri un detenuto maliano nel carcere di Bata, un uomo di meno di 30 anni che si chiamava Moussa Fofanà, è morto per via delle percosse ricevute dai carcerieri nei giorni scorsi.

Non era l’unico detenuto straniero rinchiuso a Bata: ci sarebbero infatti almeno altre 10 persone, tra camerunensi, ivoriani e equatoguineani, detenute in condizioni disumane e pestate fino alla perdita dei sensi dalle guardie del carcere di Bata. Oltre che gli italiani Roberto Berardi, che termina la sua detenzione il prossimo 17 maggio, e Fabio Galassi, per il quale la magistratura non ha ancora formalizzato alcuna accusa.

La situazione nelle carceri, e in generale nel Paese – invocano dalla Guinea Equatoriale – è oramai insostenibile; alcuni nostri contatti implorano l’intervento delle ong per la tutela dei diritti umani e della Croce Rossa, almeno per alzare il livello dell’attenzione internazionale sul piccolissimo, ma straricco di petrolio, paese africano.

Pochi giorni fa il giornalista Armando Edu Bayeme, che lavorava per la Television Nacional de Guinea Ecuatorial e per l’ufficio stampa presidenziale è stato trovato morto nella sua residenza di Bata: il corpo era in avanzato stato di decomposizione, tanto che è stato gettato in una fossa senza bara e con una cerimonia piuttosto sbrigativa.

Secondo molti l’omicidio del giornalista sarebbe da ascrivere ad un regolamento di conti all’interno dello staff presidenziale. Bayeme è infatti il secondo giornalista “di regime” trovato morto in circostanze misteriose, dopo l’incidente d’auto occorso a dicembre a Giuliano Mariano Mba Mba Nchama. Omicidi inevitabilmente legati tra loro, un po’ per l’amicizia tra i due e un po’ perché il corpo di Bayeme sarebbe stato rinvenuto a casa di Nchama ma, sostengono la famiglia e gli amici del primo, vi sarebbe stato portato dai suoi assassini solo da morto e qui deturpato: il corpo è stato infatti rinvenuto senza il cuore, i polmoni, gli organi sessuali e gli occhi.

Per sedare le polemiche e le preoccupazioni dei colleghi dei due giornalisti il secondo vicepresidente Teodorin Obiang Nguema Mangue ha promesso l’autopsia sui corpi dei due, ma nel paese non esiste un istituto di medicina legale. Il padre Teodoro ha invece dichiarato, come testimonia il video qui sotto: “Molte persone muoiono, ma non dicono esattamente di cosa sono morti”, dimenticando tuttavia che i morti non parlano più.

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Oggi, 8 aprile 2015, a Malabo si tiene un vertice internazionale tra alcuni paesi dell’Africa Occidentale per mettere a punto un piano transnazionale di contrasto al gruppo terroristico islamico Boko Haram, del quale il governo della Guinea Equatoriale denuncia la presenza nel Paese: una presenza tuttavia mai dimostrata, se non con l’istituzione di una scalcagnata e ciabattante “Tropa d’elite anti-Boko Haram”, e che sembra piuttosto un pretesto del regime per aumentare la stretta repressiva ed il controllo militare nel paese. Una stretta che si attua anche con espulsioni di massa di cittadini stranieri.

Le storie raccontate da alcuni maliani appartenenti a un gruppo di 77 persone espulso dalla Guinea Equatoriale la settimana scorsa, sono in questo senso piuttosto emblematiche: “Ero nel mio negozio a Bata quando sono stato arrestato con la forza dai militari. Sono stato picchiato. Dopo sono stato mandato a Malabo e gettato in prigione, ho perso tutto. Lì un militare mi ha colpito anche con delle cinghie” dice Omar, 17 anni del Mali, all’agenzia stampa Mali Actu.

Andrea Spinelli Barrile
Skype: djthorandre
twitter
@spinellibarrile

La foto in bianco e nero è di Tyler Hicks per The New York Times

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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