Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
Milano, 24 marzo 2015
Gli attentatori del Museo del Bardo di Tunisi erano stati addestrati nei campi dell’ISIS spuntati nella Libia post Gheddafi. Tunisini, sarebbero rientrati nel loro Paese già a Natale, secondo la ricostruzione delle autorità locali. La terra dei gelsomini che nel 2010 ha dato il la agli sconvolgimenti della Primavera araba è pesantemente influenzata dalle turbolenze negli Stati confinanti, dopo averli in origine contagiati. Esploso l’allarme ISIS in Libia, dopo l’attentato del 27 gennaio 2015 all’hotel Corinthia di Tripoli, gli analisti indicavano “Tunisia e Algeria” come gli “Stati limitrofi” più esposti all’effetto domino della penetrazione jihadista.
“Paesi confinanti nei quali la deriva può facilmente espandersi”, spiegava l’esperto di Libia dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr) di Londra Mattia Toaldo, prevedendo pericoli concreti per in Nord Africa, visti gli “elementi crescenti di preoccupazione in Libia”. Anche per l’analista di Paesi arabi e ricercatore dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica internazionale) Stefano Torelli, dagli inizi del 2014, la Tunisia – seconda destinazione extraeuropea dei turisti italiani, dopo il Marocco – era “uno dei Paesi a più alto rischio terrorismo, ma i governi occidentali, compreso quello italiano, hanno sottovalutato”.
Diversi fattori, oltre al flusso di 3 mila combattenti tunisini (stime di gennaio 2015 dell’inglese International Centre for the Study of Radicalisation) verso la Siria e l’Iraq, spingevano a innalzare il livello di guardia. A un lustro dall’inizio delle rivolte arabe, l’entroterra povero di Mohamed Bouazizi – il 27enne tunisino che cinque anni fa si diede fuoco innescando le proteste a catena – ha il triste primato di regione a più alta densità di foreign fighters, i combattenti jihadisti stranieri confluiti nell’ISIS. Altri 9 mila giovani, da fonti del governo tunisino, sarebbero stati bloccati alla frontiera, in partenza per la guerra santa in Siria e in Iraq. E, secondo altre stime non ufficiali, fino a 7 mila tunisini sarebbero si sarebbero uniti al Califfato.
All’inizio del 2014, prima della fondazione del cosiddetto Stato islamico, in Tunisia sventolavano le prime bandiere nere dell’ISIS. Un anno dopo, il corridoio di jihadisti non scorre più solamente da e per il Medio Oriente. Ma da e verso i campi d’addestramento e di battaglia in Libia (frequentati dagli attentatori di Tunisi), dove si è spostata la guerra. Ai foreign fighters di ritorno dal Medio Oriente si aggiungono le reclute delle nuove basi ISIS in Libia. Politicamente e anche culturalmente, Tunisia e Libia sono diverse, ma hanno legami geografici ed economici molto forti. Nonostante l’anarchia e la mancanza di sicurezza, ancora oggi migliaia di lavoratori tunisini attraversano la frontiera con la Libia, per sfuggire alla disoccupazione.
In generale l’economia tunisina ha risentito gravemente dell’instabilità seguita alle rivolte. Caduto Ben Ali (presidente della Tunisia dal 1987 al 2011), nel 2012 i visitatori stranieri risultavano dimezzati. Soltanto nel 2014 l’industria del turismo, risorsa primaria del Paese, aveva iniziato a riprendersi. L’impoverimento e la criminalità, soprattutto nei centri urbani, sono aumentati. I milioni di giovani disoccupati come Bouazizi, il venditore ambulante suicida eroe delle proteste, sono diventati acqua al mulino dell’ISIS. Facili prede degli imam salafiti radicali sono anche i ragazzi senza prospettive dei campi profughi: mezzo milione di rifugiati dalla Libia dei quali la Tunisia si fa carico dal 2011.
Esplosa la guerra contro Gheddafi, milioni tra libici e residenti in Libia sono poi transitati nelle tendopoli tunisine lungo la frontiera di Ras Jedir e dell’entroterra islamista, ancora più a sud: valichi ora super sorvegliati per stroncare il passaggio di armi e jihadisti tra i due Paesi. Negli anni, migliaia di giovani, insofferenti all’isolamento e alle privazioni nei campi profughi, si sono affidati ai trafficanti che gestiscono le tratte di migranti verso il Mediterraneo.
Come in Giordania, Libano, Kurdistan iracheno e anche Turchia, l’ISIS ha gioco facile a infiltrarsi tra i sunniti scappati dai conflitti in Siria, in Iraq e, in Africa, anche in Libia e nel Sahel, saldandosi ai network criminali locali che gestiscono il trafficking.
Solo nel 2011 – anno della crisi libica meno devastante della attuale -, il Dipartimento di Pubblica sicurezza italiano registrò 519 barconi partiti dalla Tunisia e 101 dalla Libia. Nella regione, il traffico di armi, droga ed esseri umani è alimentato anche dai movimenti ai confini di Libia e Tunisia con l’Algeria, la terra del superterrorista Mokhtar Belmokhtar. http://www.africa-express.info/2013/03/03/mali-chi-e-muktar-belmuktar-lalgerino-sfuggito-sempre-alla-cattura/
Sia le intelligence occidentali sia l’ISIS vorrebbero mettere le mani sul capo jhadista, signore della guerra del Sahara, dedito agli attentatati e al contrabbando dal Sahel verso il Mediterraneo. E potenziale anello di congiunzione tra Boko Haram, Isis e criminalità organizzata.
La strage al Museo del Bardo, a Tunisi, che tra i 23 morti ha fatto anche quattro italiani, è la spia di quanto, nella regione, la posta in gioco sia alta per l’ISIS. La Tunisia è più vicina della Libia a Lampedusa: 113 chilometri di mare. E come l’Italia, da mesi è bersaglio di pesanti minacce del Califfato. Per il quotidiano panarabo Asharq Al Awsat, con base a Londra, l’ultimo pericolo sono le armi chimiche. “Iprite e gas nervino sarin” sottratti agli arsenali libici “potrebbero cadere nelle mani dello Stato islamico”.
Barbara Ciolli
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@BarbaraCiolli
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