Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 14 febbraio 2015
Emergono altri terribili dettagli sugli stupri di massa perpetrati dall’esercito sudanese nel villaggio di Tabit, in Darfur, a fine ottobre dell’anno scorso. Li ha rivelati l’organizzazione Human Rights Watch in un rapporto di 48 pagine (http://www.hrw.org/node/132716/) pubblicato qualche giorno fa. A Tabit in 36 ore, a cominciare dalla sera del 30 ottobre 2014, 221 donne e ragazze sono state violentate dai soldati. “Si è trattato di attacchi sistematici contro la popolazione civile, crimini contro l’umanità – accusa l’organizzazione per la difesa dei diritti umani – se ne deve occupare il Tribunale Penale Internazionale mentre le Nazioni Unite e l’Unione Africana devono intraprendere immediatamente passi per proteggere i civili della città contro futuri attacchi”.
Il governo sudanese aveva smentito gli atti di violenza e aveva inviato sul posto un team investigativo che aveva concluso negando l’evidenza. L’Onu, che in un primo tempo aveva anch’esso sposato la tesi governativa, dopo forti pressioni internazionali (e soprattutto dopo testimonianze precise) aveva deciso di riaprire il caso ma Khartoum aveva impedito agli investigatori di indagare senza il controllo delle autorità.
Human Rights Watch insiste con la sua richiesta formulata all’indomani dell’attacco: “I sudanesi devono smetterla di negare l’evidenza e permettere all’ONU e ai suoi investigatori di indagare”, ha spiegato Daniel Bekele, direttore dell’ufficio Africa di Human Rights Watch.
Le prime informazioni sugli stupri di massa sono state diffuse il 2 novembre da Radio Dabanga, un’emittente a onde corte che trasmette dall’Olanda. Dopo le prime richieste dell’ONU rivolte al governo per permettere agli investigatori di indagare, il team di delle Nazioni Unite aveva potuto raggiungere Tabit solo il 9 novembre. Ma non era stato libero di porre domande giacché le interviste con la popolazione erano strettamente controllate dalla polizia politica sudanese.
Tra novembre e dicembre Human Right Watch ha parlato, al telefono per l’impossibilità di recarsi sul posto, con una cinquantina di testimoni e vittime dell’ondata di violenza e il quadro che ne è uscito è impressionante. Altri colloqui sono avvenuti con funzionari dell’ONU della missione UNAMID (United Nations Africa Union Hybrid Mission in Darfur) altri addirittura con impiegati del governo. Incrociando testimonianze e racconti è stato possibile verificare la veridicità di quanto accaduto a Tabit in quelle maledette 36 ore. Il villaggio è abitato da gente della tribù Fur ed è stato controllato per anni dai ribelli darfuriani. Al momento dell’attacco però non c’era neppure l’ombra dei guerriglieri.
L’esercito sudanese è intervenuto tre volte con tre diversi attacchi. I soldati sono andati casa per casa: hanno saccheggiato proprietà, arrestato e picchiato gli uomini e violentato le donne e la ragazze nelle loro case. HRW ha potuto documentare 27 casi di stupro e raccolto informazioni assai credibili su altri.
Terribile e sconvolgente la testimonianza di due soldati che hanno disertato: “Prima dell’attacco i nostri ufficiali ci hanno ordinato di entrare nelle case e stuprare più donne possibile”.
Una donna sulla quarantina ha raccontato l’attacco contro di lei e le sue tre figlie, due delle quali sotto gli 11 anni: “Hanno fatto irruzione e urlato: ‘Voi avete ucciso i nostri uomini. Ora vi facciamo vedere cos’è il vero inferno’. Ci hanno picchiato, seviziato e infine violentato una ad una”. Stessa scena è stata raccontata in altre case. I soldati cacciavano vestiti nella bocca delle ragazze per non farle urlare.
Una delle due notti gli uomini sono stati portati fuori dal villaggio e picchiati mentre le donne sono state lasciate nelle capanne indifese dagli attacchi dei militari.
Subito dopo gli stupri di massa e la denuncia di Radio Dabanga il governo sudanese ha bloccato le inchieste delle Nazioni Unite. Gli abitanti di Tabit sono stati intimiditi e minacciati: se avessero parlato e raccontato i fatti i soldati sarebbero tornati a ammazzato tutti.
Human Rights Watch ha accertato che diverse persone che avevano raccontato lo spaventoso attacco sono state torturate per evitare che continuassero a parlare. Alcuni di loro sono scappati e hanno trovato rifugio in un campo profughi fuori da Sudan e si sono decisi a rivelare nuovi dettagli.
Quello di Tabit non sembra essere un episodio isolato, ma piuttosto parte di una strategia precisa di annientamento delle popolazioni darfuriane. La regione, sebbene i media non ne parlino quasi più, è lontana dall’essere pacificata. Il governo ha sostituito i terribili janjaweed (milizie irregolari arabe chiamate “diavoli a cavallo” il cui compito era quello di attaccare i villaggi, bruciarli, uccidere gli uomini, rapire i bambini e violentare le donne) con le Rapid Support Forces (RSF) che, secondo quanto riportato dal panel di esperti dell’ONU che investigano per conto del Consiglio di Sicurezza nel 2014 hanno bruciato più o meno 3000 villaggi. Sempre secondo le Nazioni Unite nel 2014 almeno mezzo milione di persone sono state costrette a scappare nei campi di rifugiati e settanta mila solo nelle prime tre settimane di gennaio.
Lo stupro come arma da guerra è stata recentemente documentata in diverse occasioni da Human Rights Watch, non solo in Darfur, ma anche in altre regioni del Sudan, Blue Nile e in Sud Kordofan. HRW ha chiesto l’intervento immediato dalla Corte Penale Internazionale che ha minacciato di sospendere tutte le indagini in Sudan per mancanza di qualunque cooperazione da parte del governo. D’altro canto sul capo del presidente sudanese Omar Al Bashir e di altri cinque alti dirigenti del Paese, pende un mandato di cattura emesso dalla Corte per crimini di guerra, crimini contro l’umanità (compresi gli stupri di massa) e genocidio proprio per le violenze commesse in Darfur.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi