Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 4 gennaio 2015
La Repubblica Centrafricana, un Paese dimenticato dai media, eppure vive un conflitto interno terribile da quasi due anni. Una guerra tra bande armate che ha prodotto oltre 820.000 rifugiati: 400.000 sono scappati nei Paesi confinanti (soprattutto in Niger e Ciad) e oltre 420.000 sono sfollati. I morti sono oltre tremila. Secondo Save the children dall’inizio del conflitto ad oggi sono stati arruolati 10.000 bambini soldato: giovani ragazzi e ragazze al di sotto dei 18 anni che combattono a fianco dei Séleka e anti-balaka, impugnando fucili e armi, uccidendo: defraudati dell’infanzia, dell’adolescenza.
Nel 2011 viene rieletto presidente François Bozizé. Ma ben presto la sua autorità vacilla. Non è mai stato in grado di controllare il nord del Paese. Verso la fine 2012 viene formato il gruppo Séleka (“Alleanza”, in sango, lingua ufficiale insieme al francese), che raggruppa diversi unità armate ribelli, per lo più composto da musulmani.
Malgrado un accordo di pace firmato a gennaio 2013, i Séleka occupano Bangui e, nel marzo 2013, costringono il presidente a rifugiarsi in Camerun. Si autoproclama capo dello Stato Michel Djotodia, per un periodo di transizione di tre anni. Ben presto anche Djotodia si rivela incapace di governare e di tenere sotto controllo i Séleka, un gruppo eterogeneo, sostenuto anche da mercenari stranieri provenienti prevalentemente dal Ciad e dal Niger. Accanto alle bande armate trovano posto criminali normali. Incendi di interi villaggi, massacri, stupri nei confronti di cristiani sono all’ordine del giorno.
Il 10 gennaio 2014 anche Djotodia lascia la presidenza. Al suo posto Il CNT (Consiglio nazionale di transizione) nomina l’ex-sindaco di Bangui (la capitale del CAR), una donna, la signora Catherine Samba-Panza, per traghettare il Paese verso le prossime libere elezioni che dovrebbero svolgersi durante i primi sei mesi di quest’anno.
Questo conflitto ha generato una profonda spaccatura tra musulmani e cristiani (che rappresentano quasi l’80 percento della popolazione) e si è trasformato in una guerra di religione, cosa mai avvenuta prima, in quanto musulmani e cristiani hanno sempre vissuto in perfetta armonia gli uni accanto agli altri. E infatti, durante l’autunno 2013 anche i cristiani si organizzano e formano il gruppo anti-balaka, che in lingua sango significa anti-machete; si autodefiniscono “combattenti per la liberazione del popolo centrafricano”.
Trattati di pace e cessate il fuoco si susseguono, ma la guerra civile/religiosa continua senza sosta. Durante una visita lampo a Bangui, il 5 aprile 2014, il segretario generale dell’ONU Ban-ki moon ammonisce che esiste un serio pericolo di genocidio, come è avvenuto in Ruanda vent’anni prima. Promette l’invio di altre truppe di pace che contribuiranno a ristabilire lo Stato di diritto, la fiducia della gente nelle istituzioni (http://www.africa-express.info/2014/04/08/centrafrica-appello-alla-pace-per-ban-ki-moon-rischio-genocidio-come-ruanda/).
Dopo mesi di preparazione per l’invio dell’ingente missione di pace e per riorganizzare le truppe francesi (operazione Sangaris) e di MISCA (dell’Unione africana) finalmente, il 15 settembre diventa operativa MINUSCA (Missione Multidimensionale Integrata per la Stabilizzazione nella Repubblica centrafricana) (http://www.africa-express.info/2014/09/18/passa-allonu-la-gestione-della-missione-centrafrica/).
Il compito principale di MINUSCA è quello di disarmare i Séleka, gli anti-balaka e gli altri gruppi ribelli, e di proteggere la popolazione civile.
Il primo ministro André Nzapayéké, dopo solo sei mesi, si dimette e la presidente Samba-Panza chyiama a ricoprire l’incarico Mahamat Kamoun, musulmano, economista, come suo successore. (http://www.africa-express.info/2014/08/13/nominato-il-primo-ministro-musulmano-repubblica-centrafricana-ma-musulmani-non-ci-stanno/). Riuscirà nel suo intento a traghettare il governo di transizione verso le elezioni?
Malgrado tutti gli sforzi e le truppe internazionali messe in campo, nel CAR si continua a morire, la gente fugge dalle proprie abitazioni, perché terrorizzata dalla violenza crescente.
Nella cittadina di Yaloke, a duecento chilometri da Bangui, si trovano in grave pericolo 470 musulmani dell’etnia fulani. Per lo più provengono da Bouaca, Boboua, Bolemba, Boda, cittadine che hanno dovuto lasciare in 700 lo scorso febbraio perché minacciati e attaccati dagli anti-balaka. “Necessitano urgentemente di aiuti umanitari e/o di una ricollocazione in campi profughi interni oppure un aiuto per poter raggiungere il Ciad o il Camerun”, spiega allarmata a Bangui Dalia al-Achi, portavoce dell’UNHCR ai reporter di Al Jazeera. “Non possiamo rimanere a guardare mentre muoiono. Molti di loro sono giunti a Yaloke in aprile, dopo una lunga fuga attraverso le foreste: volevano raggiungere il Camerun. Durante la fuga 150 persone sono state uccise dagli anti-balaka e altre quarantadue sono morte per le ferite riportate o per malattia a Yaloke. Gli altri sono terribilmente malnutriti. Il 30 percento soffre di malaria e/o di febbre tifoide”.
Lewis Mudge, ricercatore per Human Rights Watch, scrive in un suo rapporto: “Spesso la scelta non è facile: rimanere e morire di fame, o fuggire e rischiare di essere uccisi “.
Tutto ciò succede nella più grande indifferenza del mondo, dei media.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
twitter: @cotoelgyes
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