Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Malakal, 22 settembre 2014
Per atterrare a Malakal il nostro aereo scende a spirale per evitare di essere bersaglio di qualche missile sparato, magari a casaccio, dai gruppi ribelli o filogovernativi che operano nei dintorni della città.
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Oggi la capitale dello Stato dell’Upper Nile è un città fantasma. Di giorno tra le macerie e i ruderi c’è qualcuno che vende il the e qualche misera mercanzia. Di notte non c’è proprio nessuno e tutti cercano rifugio nella base, ben guardata dalle truppe dell’UNMISS (United Nations Mission in South Sudan), che ospita più di 20 mila persone.
All’ingresso della città c’è l’ospedale devastato, saccheggiato e vandalizzato: “Una parte del complesso, quella che ospitava i bambini e la maternità, era stata costruita appena due anni fa – spiega il dottor Steven Akwott che ha studiato a Khartoum e si è specializzato a Cairo e Port Sudan -. L’edificio del laboratorio di analisi era appena terminato e doveva essere consegnato da lì a pochi giorni”. Il saccheggio non è stato meticoloso. Certo i materassi, ghiotta preda da queste parti, sono spariti. Ma che quello che impressiona di più è il vandalismo con cui sono state distrutte le suppellettili e soprattutto le apparecchiature.
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I saccheggiatori in azione cercano di lasciare le cose in buone condizioni perché poi se le portano a casa. Qui no: la furia vandalica ha superato la smania di rubare.
“Il nostro ospedale curava non solo i bambini e le mamme. Avevamo 120/130 pazienti ogni giorno che si registravano per visite ambulatoriali – racconta il dottor Akwol – . Servivamo non solo Malakal ma anche tutta la regione. Venivano qui da lontano. Ora non solo tutto è distrutto ma non ci sono neppure i medici e gli infermieri. E nemmeno i pazienti. Tutti scappati”. Era stato costruito e attrezzato con il contributo dell’Unione Europea e, sebbene sia durato poco, ha il merito di aver contribuito ad alleviare i malanni della gente comune.
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Ora in Sud Sudan vige una tregua di fatto, imposta più che dalla volontà delle parti in lotta, dalla stagione delle piogge. I violenti temporali quasi quotidiani allagano le campagne e le piste. Non è facile muoversi e quindi impossibile tentare di attaccare e combattere. Il timore è che appena incomincerà la stagione secca ricominceranno scontri e combattimenti con la gente che non sa dove andare.
Come sembra lontano quel 9 luglio 2011 quando tutto il Sud Sudan celebrò, dopo una trentina d’anni di guerra, l’indipendenza lungo sognata. Dinka, nuer, shilluk, bari e tutte le altre tribù unite a festeggiare. C’era un patto non scritto di condividere potere e risorse. Nel gioco non era previsto un asso piglia tutto. Tutto è miseramente crollato dopo due anni e mezzo quando i leader sono stati abbagliati dalle prospezioni petrolifere che promettono ingenti profitti. Nel luglio 2013 il presidente Salva Kiir Mayardit ha licenziato il suo vicepresidente Riek Machar Teny e poi in dicembre l’ha accusato di aver ordito un colpo di Stato. E’ cominciata la guerra.
E’ triste vedere molti dei profughi che hanno scelto di trovare rifugio nel Sudan del nord, il Paese dell’odiato nemico musulmano dove per anni loro cristiani e animisti sono stati maltrattati, offesi e umiliati.
A Malakal tutto è andato distrutto anche i magazzini dell’UNICEF dove veniva stoccato il cibo, i camion dell’IOM (International Organization for Migration, un’agenzia dell’ONU che si occupa anch’essa di aiuti) e parecchie attrezzature. Andati in malora perfino gli impianti per la purificazione dell’acqua. Vandalizzata anche la sede dell’organizzazione per l’infanzia.
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Uscire da questo tunnel non sarà facile. I colloqui di pace ad Addis Abeba si trascinano stancamente. La lotta pr il potere tra il presidente Salva Kiir e i suoi dinka (non tutti compatti dietro di lui per, la verità) e i nuer di Riek Machar, si è arricchita di un terzo protagonista lo shilluk Lam Akol, attualmente agli arresti domiciliari a Juba. Lam Akol, nella disputa tra Salva e Riek, si è sempre mantenuto neutrale, ma ora che il presidente l’ha messo sotto custodia potrebbe scappare e, una volta in salvo, lanciare la sua propria ribellione o schierarsi con i nuer. A questo punto per il Sud Sudan non si potrete più parlare di prospettive di pace ma di una nuova catastrofe.
Massimo A. Alberizzi
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