Dimitri Amilakhvari
Cornelia I. Toelgyes
2 settembre 2014
Al momento, la situazione in Libia è però particolarmente complessa. L’ex generale Khalifa Haftar, che conduce nella Cirenaica una campagna antiterrorismo (Operazione Dignità alla testa del Libyan National Army) si trova a contrastare le milizie islamiste che operano nella regione, prime tra tutte Ansar al Sharia e Brigata 17 Febbraio. Ma anche la Operations Cell of Libyan Revolutionaries, una coalizione in cui convergono diverse milizie islamiste e altri gruppi armati autonomi.
Ansar al Sharia, i Partigiani della Legge Islamica, è una milizia salafita che pretende l’attuazione della Sharia in tutta la Libia e che è emersa a seguito della rivolta anti-Gheddafi del febbraio 2011. Oggi si compone di più brigate di combattenti e ha base nella Libia orientale, in particolare a Bengasi. Anche le milizie che combattono al fianco di Haftar sembrano piuttosto orientate a governare, almeno in secondo tempo, una singola area o più città in maniera indipendente (Misurata, Bengasi o la stessa Tripoli).
Una di queste è la milizia di Zintan, città a sud di Tripoli, i cui principali avversari includono le brigate della città di Misurata e altre milizie vicine al partito Giustizia e Costruzione, il blocco politico-religioso vicino ai Fratelli Mussulmani. Nata come un agglomerato di 23 milizie tra Zintan e le montagne di Nafusa, nella Libia occidentale, il consiglio militare di questa milizia è formato da cinque brigate, che si stanno dimostrando molto pericolose.
La Libya Revolutionaries Operations Room si è invece costituita ufficialmente con il compito di proteggere la capitale ed è la forza di sicurezza destituita dal parlamento dopo che i suoi membri hanno rapito l’allora primo ministro Ali Zeidan nell’ottobre del 2013. Una parte di essa opera anche a Bengasi.
Proprio nella città di Derna è stata uccisa Fariha al Barkawi, un ex membro del parlamento, la seconda donna di spicco della scena politica libica dopo l’uccisione nel mese luglio del 2014 a Bengasi dell’attivista dei diritti umani, Salwa Bugaighis. Inoltre, sembra anche i jihadisti del Maghreb e del Sahel si stiano separando da al Qaeda, nella ricerca di un emiro cui affidare la gestione del più ampio progetto islamista.
In un messaggio audio, apparso su YouTube il 26 giugno 2014, l’organizzazione al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), il gruppo nato dall’evoluzione dell’organizzazione fondamentalista algerina Gruppo Salafita di Predicazione e Combattimento (GSPC) che oggi opera nel Sahel, ha espresso tutto il proprio appoggio all’Isis, criticando l’attendismo di altri gruppi legati ad al Qaeda che ancora esitano a schierarsi.
In questo messaggio, Abi Abdallah Othmane el Assimi, il “cadi”, cioè giudice religioso del gruppo, rigetta le accuse lanciate dalla casa madre qaedista secondo cui le recenti azioni dei militanti dell’Isis li classificherebbero come “fuoriusciti dalla retta via dell’autorità religiosa”, rispondendo direttamente alla richiesta di presa di posizione lanciata da un portavoce dello Stato Islamico, Abi Mohamed al Adnani.
Il video è stato diffuso qualche giorno prima della dichiarazione dell’Isis della restaurazione del Califfato Islamico, avvenuta il 29 giugno 2014, con l’occupazione di una parte del territorio dell’Iraq. Si può quindi dedurre che gli jihadisti del Sahel fossero già al corrente del progetto dei fratelli siriani, che alla fine del messaggio salutano come “azione unificatrice” e terminano con un “appuntamento nel califfato, se Dio vuole”.
Nella seconda metà del luglio scorso, sono circolate alcune ipotesi su un imminente conclave organizzato, in località e data segrete, dai maggiori gruppi jihadisti del grande Maghreb (dal Marocco all’Egitto) e del Sahel (dal Mali al Sudan passando da Ciad, Niger e nord della Nigeria) per eleggere un nuovo emiro della zona.
Secondo alcune indiscrezioni pubblicate da uno dei più grandi giornali marocchini in arabo, Assabah, e dal sito d’informazione marocchino Kiosque-360, in gioco ci sarebbe il progetto della creazione dello Stato Islamico del Maghreb, al Aqsa, sul modello di quello d’Iraq e Siria.
Sembra che l’idea sia nata proprio dal capo di Aqmi, Abdelmalek Droukdel, lo stesso terrorista che nel 2006 ha cercato di riportare alla ribalta l’allora Gruppo Salafita di Predicazione e Combattimento alleandosi con al Qaeda (al Qaeda accettò l’affiliazione soltanto nel mese di gennaio del 2007, dopo che il gruppo aveva dimostrato sul campo la propria determinazione con il rapimento di diversi occidentali).
Diversi capi delle organizzazioni AQMI, MUJAO (Movimento per l’Unicità e la Jihad in Africa Occidentale) e Ansar Eddin (Difensori della Religione) sono stati uccisi durante l’Operazione Serval, compresi Abdelhamid Abu Zeid e Oumar Huld Hamaha, rispettivamente capi di AQMI e del MUJAO in Mali. Tra le azioni di contrasto, l’uccisione a fine aprile del 2014 di Aboubakr al Nasri, il capo del gruppo Al Mourabitoun di Mokhtar Belmokhtar, ancora ricercato e sulla cui testa pende una taglia di 5 milioni di dollari del Dipartimento di Stato americano.
Il gruppo Ansar al Sharia ha reso noto, il 31 luglio 2014, di aver preso il controllo completo di Bengasi, dichiarando in città l’istituzione di un emirato islamico. Contemporaneamente, Haftar ha accusato il gruppo di reclutare combattenti in Africa per portarli in Libia. In ogni caso, la stampa locale ha segnalato la notizia della scoperta in Tunisia di una cellula terroristica che si occupava proprio del reclutamento di giovani da inviare in Libia. I futuri combattenti verrebbero condotti in campi di addestramento di Ansar al Sharia e quindi educati alla jihad (sono stati emessi 5 mandati di arresto per i membri della cellula).
Il ministero dell’Interno di Tunisi ha annunciato che le squadre dell’anti-terrorismo, con il sostegno della polizia di frontiera, hanno scoperto una cellula terroristica che si occupava di reclutare e inviare giovani in Libia. Un’altra cellula terroristica era stata scoperta in Tunisia, nel quartiere di Ennassim della cittadina di Ariana, nell’area nord orientale del Paese. In questa operazione è stata scoperta anche una mitragliatrice pesante che doveva servire per attaccare la stazione di polizia di Borj Louzir.
Di conseguenza, anche le violenze contro i cristiani e le minoranze in genere sono di molto aumentate, sia contro i cristiani libici che quelli stranieri, con una responsabilità diretta attribuibile ai gruppi salafiti e a quelli islamici radicali.
Nel febbraio del 2013, cinque cristiani egiziani sono stati arrestati e torturati a Bengasi con l’accusa di essere missionari cristiani. Uno di loro è morto in prigione e gli altri quattro sono stati rilasciati. Un chiaro messaggio a tutti i cristiani presenti nel Paese, o meglio un forte ammonimento a non svolgere attività di proselitismo.
L’Apparato di Sicurezza Preventiva, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto sciogliersi con la formazione dei nuovi servizi segreti libici (nel mese di febbraio del 2012) per essere assorbito nella nuova struttura.
L’ufficio non è stato tuttavia sciolto ed oggi costituisce un’organizzazione parallela a quella ufficiale, ma con una maggiore infiltrazione islamica se non addirittura salafita. Recentemente, i responsabili hanno rilasciato alcune dichiarazioni che dagli osservatori internazionali sono state considerate aggressive nei confronti dei cristiani.
Hussein bin Hmeid, il comandante della struttura di Bengasi, ha affermato che il Paese è “mussulmano al 100%”, mentre un altro responsabile, Abdul Salam Bargathi, ex membro di Ansar al Sharia, ha messo in guardia i cristiani, esortandoli a prestare la massima attenzione poiché potrebbero essere considerati come una minaccia per la sicurezza. Ha aggiunto anche che non dovrebbero ricostruire le chiese distrutte perché il gesto potrebbe essere interpretato come un atto di proselitismo.
La Libia, anche se ha sempre formalmente ostacolato il passaggio dei clandestini verso l’Europa, potrebbe oggi organizzare in prima persona il traffico di esseri umani e ricavare i profitti ingenti che i viaggi dei clandestini generano.
Senza trascurare la possibilità che potrebbero essere utilizzati per consentire l’accesso in Europa a cellule terroristiche, sempre più numerose ed organizzate. Queste unità sul territorio del vecchio continente, potrebbero infatti tornare utili nel caso che l’Europa decida di muovere passi decisivi contro i nuovi signori della guerra presenti in Libia.
Le uniche forze ancora presenti per contrastare il business del traffico degli esseri umani sono costituite dagli uomini del Bureau dell’Anti Crimine di Zuwara, la cittadina sul versante occidentale della costa dove si radunano i migranti in cerca di asilo politico. Questo reparto è stato formato agli inizi del 2013 e conta oggi indicativamente 300 uomini, quasi tutti nascosti dietro i passamontagna neri per evitare di innescare faide e vendette trasversali tra le famiglie.
In effetti, negli ultimi anni il Paese è stato dilaniato dagli scontri tra le tribù e le milizie che non intendono consegnare le armi, oltre al dilagante fondamentalismo islamismo e la lunga ombra di al Qaeda. Il governo di Tripoli controlla soltanto la capitale, ma non tutti i quartieri, parte dell’area di Misurata e un limitato territorio del Fezzan, mentre nell’estremo sud le bande ancora fedeli a Gheddafi controllano il traffico di armi e di essere umani verso l’Africa sub sahariana. Nell’area di Bengasi le tribù locali amministrano la giustizia e controllano i commerci, quasi tutti illegali, oltre ad alcuni terminal petroliferi.
Anche se la popolazione è duramente provata dalle continue violenze, la strada per una nuova Libia sembra ancora in salita.
Dimitri Amilakhvari
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
twitter: @cotoelgyes
(5 – fine)
Qui trovi la prima puntata del Dossier Libia: Un caos che viene da lontano
Qui trovi la seconda puntata del Dossier Libia: La lotta per le concesioni petrolifere
Qui trovi la terza puntata del Dossier Libia: Le milizie prendono il sopravvento: stranieri in fuga
Qui trovi la quarta puntata del Dossier Libia: Il denaro per pagare i riscatti (93 milioni di dollari) foraggia i terroristi
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