Nella prima puntata è stata raccontata la storia
dei primi momenti del post Gheddafi,
fino alla morte del figlio ventinovenne del rais, Khamis.
Nostro Servizio Particolare
Dimitri Amilakhvari
Cornelia I. Toelgyes
Il mese di gennaio del 2013 si apre con un grave attentato. Viene aperto il fuoco contro l’autovettura blindata del console italiano a Bengasi, Guido de Sanctis, uscito fortunatamente illeso. Si tratta dell’episodio più grave per un diplomatico occidentale dopo l’attentato ai danni dell’ambasciatore americano e di altri funzionari britannici.
Anche se il mandato del console si avviava verso la conclusione, durante il suo periodo era stata riaperta proprio la sede del consolato italiano a Bengasi, saccheggiata da una folla inferocita nel 2006 per la pubblicazione di alcune vignette satiriche su Maometto.
Dichiarata una città insicura per gli italiani, il governo di Roma decide di sospendere, almeno temporaneamente, le attività del consolato e il personale viene richiamato.
L’intera Cirenaica è sconvolta da una serie di attentati, anche contro le stesse forze dell’ordine governative, e il governo di Tripoli decide di formare una speciale task force a difesa dei diplomatici occidentali. Sembra che l’intero percorso democratico della nuova Libia sia messo in discussione e la comunità internazionale intensifica il sostegno alle istituzioni e al popolo libico, anche se in quella regione rimangono solo poche rappresentanze diplomatiche straniere, tra cui quella maltese, l’unica europea in un ufficio protetto dell’Hotel Tibesty.
Secondo Jalal Elgallal, membro attivo della società civile a difesa delle “conquiste della rivoluzione”, il consolato italiano in Cirenaica ha un valore simbolico per tutto il popolo libico e mette in guardia il governo di Tripoli per possibili attività terroristiche provenienti dagli estremisti islamici e dai lealisti di Gheddafi.
In effetti, la città di Bengasi è sotto attacco. Dopo le granate lanciate contro tre stazioni di polizia, un’autobomba esplode davanti all’ospedale di al Jana e provoca la morte di quindici persone, tra cui molte donne e bambini, e il ferimento di altre trenta.
Anche se l’attentato non viene rivendicato, gli analisti ritengono che sia opera dei fondamentalisti islamici che hanno da poco alzato il tiro. Contrariamente ai precedenti, questo atto terroristico ha un obiettivo civile e viene portato a termine in pieno giorno e in una zona particolarmente affollata.
Bengasi è la culla della rivoluzione che ha portato alla caduta di Gheddafi e l’insicurezza dell’intero Paese è proporzionale all’incapacità delle autorità centrali di contrastare i violenti attacchi dei gruppi armati della Cirenaica, già responsabili di aver assediato due ministeri a Tripoli per ottenere l’epurazione dei politici e dei funzionari legati al vecchio regime.
Anche nella città di Tripoli l’ambasciata italiana è in pericolo. Un ordigno, forse una bomba alla gelatina, viene piazzata nell’automobile di un diplomatico e soltanto la prontezza dell’autista riesce a sventare l’attentato senza causare vittime. Quindi anche la capitale, considerata più sicura dagli occidentali rispetto alla turbolenta Bengasi, sembra essere minacciata dalle frange estremiste. L’ambasciata francese è stata colpita da un’autobomba che ha causato la morte di un gendarme e di una donna, mentre quelle di Gran Bretagna e Germania hanno ridotto il personale.
Nella città di Bengasi si registrano oltre trenta vittime durante la rivolta scoppiata contro il quartier generale della milizia, conosciuto come lo “Scudo della Libia”, cui partecipano un centinaio di civili armati. Il Consiglio della Cirenaica si dichiara indipendente dal governo di Tripoli e che risponde con un piano globale per la totale “dissoluzione delle milizie illegali”.
Nell’ottobre del 2013 il primo ministro Ali Zeidan viene rapito e poi rilasciato dopo diverse ore. Fermato e sequestrato da milizie legate alla maggioranza islamica del parlamento, la “Camera dei Rivoluzionari di Libia”, il premier viene accusato di aver favorito un raid americano che ha portato alla cattura di un pericoloso terrorista. Anche questo gruppo, insieme a altri, è assoldato dal ministero della Difesa, o da quello dell’Interno, per garantire l’ordine pubblico contro il dilagante fenomeno delle milizie armate.
In una precedente conferenza stampa, Ali Zeidan aveva assicurato che i cittadini libici avevano il diritto di essere processati sul territorio nazionale e che il blitz non avrebbe compromesso le relazioni tra Washington e Tripoli (la cattura in ballo era quella di Abu al Libi, il terrorista di al Qaeda considerato la mente delle stragi di Nairobi e Dar es Salam nel 1998).
La vicenda rimane comunque oscura. Secondo i miliziani si tratta di un vero e proprio arresto emesso dalla procura generale in base al codice penale per reati contro l’ordine pubblico e la corruzione (il premier era da settimane sotto accusa per la gestione economica e la sicurezza), anche se la procura ha subito smentito l’esistenza di un ordine di arresto.
In effetti, la destabilizzazione della Libia si è ulteriormente aggravata anche sul piano della sicurezza energetica, oltre che sulle spinte dei ribelli indipendentisti. Una serie di scioperi negli stabilimenti di Mellitah (gestiti dall’Eni) sulla costa tripolitana costringe l’interruzione dell’approvvigionamento nel gasdotto e in Cirenaica il capo di una milizia di Tobruk si auto proclama primo ministro della regione e decide di creare una nuova compagnia petrolifera indipendente da quella statale. In entrambi i casi, i problemi vengono ricondotti all’eccessivo potere raggiunto dalle milizie armate e all’incapacità del governo di controllare il vasto territorio libico e di contrastare i gruppi ribelli.
I combattimenti tra l’esercito regolare e le milizie paramilitari sono più cruenti a Bengasi, dove impera la milizia fondamentalista islamica Ansar al Sharia, già responsabile dell’assalto al consolato americano. Dopo una serie di scontri, i ribelli vengono temporaneamente allontanati dal centro storico, anche se si attestano nell’immediata periferia in attesa di sferrare una controffensiva.
Verso la fine del 2013, la guerriglia urbana esplode anche a Tripoli e causa una trentina di morti e oltre duecento feriti, gli scontri più sanguinosi dopo la caduta di Gheddafi nel 2010. All’origine, una manifestazione pacifica contro le scorribande di un gruppo di miliziani di Misurata che spadroneggia nel quartiere di Ghargur, dove ha sede la banda incriminata. In risposta, i miliziani aprono il fuoco sulla folla facendo degenerare la situazione. La manifestazione era stata indetta per chiedere al governo l’attuazione della legge 27, ovvero l’integrazione dei miliziani nell’esercito regolare o il loro completo scioglimento.
La capitale, così come la parte occidentale del Paese, piomba nel caos. Il premier Ali Zeidan attribuisce ai miliziani di Misurata la responsabilità degli scontri e ordina a tutti i gruppi armati, di qualunque origine, di lasciare immediatamente Tripoli.
All’inizio del 2014, viene condotto un nuovo attacco contro il cimitero italiano della capitale, che questa volta causa la morte di una guardia e la devastazione di decine di tombe. Sventolando le bandiere verdi del regime di Gheddafi, gli uomini armati con Ak47 hanno distrutto anche i documenti conservati nell’archivio e incendiato gli edifici dei guardiani. Un precedente assalto, compiuto sempre dai sostenitori di Gheddafi solo pochi giorni prima, non aveva fatto registrare danni ingenti grazie all’intervento della forze di sicurezza e alla reazione degli abitanti del quartiere di Mansoura.
Le stesse bandiere verdi oramai sventolano in alcuni villaggi sulla costa, da Tarhouna a Sirte, la città natale di Gheddafi. Anche gli scontri dilagano in tutto il Paese, sino al valico con la Tunisia. Il risentimento contro l’Italia, già accusata di aver tradito il rais, trova nuova propaganda dagli aiuti forniti al “governo corrotto” e in particolare dalla notizia dell’addestramento a Cassino di 350 militari libici, scatenando anche le minacce sui siti web. Due operai italiani vengono rapiti a Derna, una zona a forte presenza di gruppi fondamentalisti, ma anche di bande criminali.
L’instabilità politica del Paese diventa endemica e una mozione di sfiducia contro il premier Zeidan ottiene soltanto 99 firme (ne sono necessarie 120) ma causa comunque la dimissioni dei cinque ministri del partito Giustizia e Sviluppo, il braccio politico dei Fratelli Mussulmani. Le vendette personali di stampo ideologico non si contano più e il governo non riesce a garantire l’ordine in Cirenaica.
Nel febbraio del 2014, anche se tra violenze e attentati, viene eletta l’Assemblea costituente. La nuova costituzione, redatta dopo quella del 1951, dovrà tentare di sciogliere i nodi che ancora affliggono il Paese dopo anni di scontri tra il governo e le milizie armate. In particolare, il ruolo svolto dalle donne nel Paese. Dopo aver combattuto contro Gheddafi non sono riuscite a ritagliarsi una giusta collocazione, anche se il governo annuncia un importante risarcimento per quelle che durante la rivoluzione sono rimaste vittime degli stupri compiuti dai lealisti. Rispetto alla elezioni parlamentari del 2012, quando vennero sconfitti gli islamici, a causa della disillusione della popolazione e il boicottaggio delle tribù tebu e amazigh, soltanto un terzo degli elettori si reca alle urne.
Nel marzo del 2014 si svolge a Roma una conferenza internazionale sulla Libia con la partecipazione di circa 40 delegazioni. Anche se viene confermato l’impegno della comunità internazionale per accompagnare la Libia nel processo di transizione democratica, alle autorità di Tripoli viene richiesto l’impegno di maggiori sforzi per superare la profonda crisi che attanaglia il Paese. Dopo il fallimento delle elezioni per l’Assemblea costituente, con la partecipazione di poco meno del 15% degli aventi diritto al voto, la Libia non ha ancora una costituzione e la questione della sicurezza è rimasta irrisolta.
Il ministro degli Esteri libico, Mohamed Abdelaziz, conclude i lavori esponendo gli obiettivi del governo e in particolare la volontà di smilitarizzare le milizie armate. Ma la grande assente è stata la data delle nuove elezioni parlamentari dopo la scadenza del mandato del Congresso nazionale, sempre più delegittimato.
Mentre a Bengasi dilaga la violenza contro gli occidentali e le forze di sicurezza (dall’omicidio di sette egiziani copti sino a quello di un colonnello dell’aeronautica) il governo di Tripoli decide di riabilitare il defunto re Mohamed Idriss al Senoussi, deposto con un colpo di stato guidato da Gheddafi nel 1969.
Ma il 12 marzo 2014 il premier Ali Zeidan viene sfiduciato dal parlamento (dopo le vicende di una petroliera nordcoreana rifornita da una milizia ribelle della Cirenaica) e il suo posto viene preso da Abdullah al Thinni, il ministro della Difesa nominato capo del governo ad interim.
Il 18 maggio 2014 il parlamento libico, il General National Congress, viene assaltato da gruppi di miliziani con armi pesanti che occupano gli uffici e bloccano tutti gli accessi. L’attacco, che provoca alcuni morti e un centinaio di feriti, è attribuito alle milizie che fanno base nella vicina città di Zintan, le stesse che tengono prigioniero Saif al Islam, il figlio di Gheddafi che si rifiutano di consegnare alle autorità di Tripoli.
Sembra anche che questo gruppo, provvisto di armi particolarmente sofisticate, agisca insieme all’esercito nazionale libico, il Libyan National Army, una formazione composta principalmente di ex militari e guidata dal generale Khalifa Haftar. Il colonnello Mukhtar Farnana, che si è autoproclamato comandante dei miliziani che hanno portato a termine l’attacco, dichiara che “il GNC è sospeso […] poiché ha tradito la volontà popolare allineandosi con gang ideologiche [le forze islamiste] e la Libia non diverrà mai un’incubatrice di terrorismo”.
Il governo libico ha disposto la sospensione del parlamento e di qualunque sua attività fino a nuove elezioni, compresa quella di un nuovo premier. L’ultimo nominato, l’imprenditore miliardario Ahmed Miitig, improvvisamente entrato in politica lo scorso 4 maggio con l’appoggio dei fondamentalisti islamici, non è di fatto riuscito a portare alcuna soluzione alla crisi libica aggravando piuttosto i contrasti tra islamisti e laici.
Pochi giorni prima, le stesse milizie avevano sferrato un attacco contro le formazioni islamiste asserragliate nella città di Bengasi, causando oltre 80 morti e più di 150 feriti. In questo caso sono stati usati anche aerei ed elicotteri, ma per gli analisti rimane ancora confusa l’identità di vedute tra il generale Haftar e il colonnello Farnana. In risposta all’assalto di Bengasi, una milizia legata ad al Qaeda e denominata “I leoni del monoteismo”, annuncia che si unirà alle forze armate che stanno combattendo le truppe di Haftar.
Il pericolo è appunto quello che jihadisti e Fratelli Mussulmani si saldino per opporre una consistente resistenza, che troverebbe supporto nelle rivalità tribali, come ad esempio a Misurata, dove le milizie sono da sempre rivali di quelle di Zintan. Senza contare le difficoltà di controllo del territorio, specialmente nel Fezzan, la vasta regione desertica meridionale.
Dimitri Amilakhvari
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
twitter: @cotoelgyes
2 – continua.
Puoi leggere qui la prima puntata Dossier Libia-1/Un caos che viene da lontano
Puoi leggere qui la terza puntata Dossier Libia-3/Le milizie prendono il sopravvento: gli stranieri in fuga
Qui trovi la quarta puntata del Dossier Libia: Il denaro per pagare i riscatti (93 milioni di dollari) foraggia i terroristi
Qui trovi la quinta puntata del Dossier Libia: Un arcipelago di milizie impossibili da controllare