Sahel, la destabilizzazione passa per il traffico d’armi

Nostro Servizio Particolare
Vincenzo Gallo
24 agosto 2014
La circolazione incontrollata di armi è uno dei fattori che contribuiscono a innescare il circolo vizioso della violenza. Maggiore è la disponibilità/reperibilità di armi e più alta sarà la probabilità che le tensioni etniche, politiche o di altra natura sfocino in un conflitto armato. Quest’equazione si è manifestata con particolare chiarezza nel Sahel. Questa regione è alcuni da anni attraversata da un’interminabile sequenza di eventi e sconvolgimenti politici che, come si è visto, ha seriamente compromesso la stabilità e la sicurezza in un’area che già sconta gli effetti dell’arretratezza economica e della marginalizzazione politica.

LE ARMI NEL SAHEL
L’Africa, complice l’instabilità cronica di alcune aree e la lunga durata di conflitti interni, è da tempo un importante mercato di sbocco per i traffici internazionali di armi sia sul mercato ufficiale , sia su quello illecito. I dati dell’istituto svedese SIPRI sulla spesa militare nel 2013 indicano che il continente nel suo insieme ha destinato 44.9 miliardi di dollari alla difesa, il che significa un aumento dell’8,8% rispetto all’anno precedente.

L’Algeria da sola spende 10 miliardi di dollari, mentre, tra gli altri paesi, solo Marocco, Angola, Nigeria e Sudafrica spendono oltre un miliardo di dollari. Per la restante parte del continente la spesa ufficiale è estremamente esigua. Il Mali, ad esempio nel 2011 ne spendeva meno di 200 milioni, il Niger e la Repubblica Centrafricana circa 50 milioni[1].

Nella maggior parte dei casi, però, queste cifre rappresentano solo una parte dei fondi destinati agli armamenti ed è evidente che non vengono considerate le grandi quantità di armi leggere e di piccolo calibro (le c.d. SALW, Small Arms and Light Weapons) che continuano a circolare attraverso canali illegali. Sono proprio queste armi a rappresentare la principale minaccia alla stabilità di diverse aree e che continuano ad alimentare atrocità e violazioni dei diritti umani.

Il Sahel è una delle aree maggiormente colpite dagli effetti della proliferazione delle armi leggere, specialmente dalla caduta del regime di Gheddafi. Già dal 2011, infatti, le armi trafugate dagli arsenali del Rais varcavano i confini libici con destinazione Niger, Algeria, Nigeria, Mali, Ciad. Sono stati segnalati carichi di fucili d’assalto, munizioni, mortai ed esplosivi. Informazioni dettagliate da parte di ONG e servizi di intelligence di vari Paesi occidentali fanno riferimento ad un vasto assortimento di lanciamissili portatili da impiegare contro aerei e carrarmati. Tra questi, vi sono migliaia di pezzi dei temutissimi terra-aria SA-7 di fabbricazione sovietica e SA-24 in grado di abbattere un areo a bassa quota, oltre agli AT-14 e TBG-7[2]. Gli attacchi terroristici in Algeria, inoltre, hanno dimostrato che i gruppi terroristici sono entrati in possesso di ingenti quantitativi di esplosivo al plastico Semtex, sempre di fabbricazione sovietica.

Anche la Francia è stata accusata di aver fornito armi ai ribelli e ai combattenti durante la crisi libica. Nonostante le smentite di Parigi, il quotidiano le Figarò sostiene che le armi lanciate dagli aerei francesi comprendessero non solo armi leggere destinate alla difesa della popolazione, ma anche lanciamissili anticarro.

LE ARMI LIBICHE ALIMENTANO LE TENSIONI REGIONALI ED IL TERRORISMO
La “primavera araba” ha travolto diversi regimi liberticidi dell’Africa magrebina, ma le aspettative di democratizzazione dei popoli interessati sono state ampiamente disattese. Al contrario, la caduta delle dittature decennali, in primis quella del Colonnello Gheddafi, ha attivato dei meccanismi interni che hanno frammentato il potere in una miriade di gruppi armati, favorendo la militarizzazione e la conseguente ingovernabilità del Paese.

Quello che poteva nelle primissime fasi essere classificato come una ribellione interna si è ben presto rivelato un elemento fortemente destabilizzante per l’intera regione saheliana. Gli enormi arsenali libici, alla cui formazione hanno contribuito i paesi dell’ex blocco socialista, come pure diversi fornitori europei, sono stati fatti oggetto di razzie per poi essere smerciati per equipaggiare i gruppi ribelli e le organizzazioni terroristiche operanti nella regione[3].

Migliaia di combattenti arruolati e armati dal Rais dopo la caduta del regime libico si sono uniti ai gruppi separatisti tuareg in Mali per rovesciare il governo del presidente Amadou Toumani. I Tuareg del Movement for the Liberation of the Azawad (MNLA), già protagonisti di diverse ribellioni contro il potere centrale, si sono alleati con alcuni gruppi terroristici facenti capo ad Al-Qaeda, tra cui l’AQIM (Al-Qaeda in the Islamic Maghreb, il MUJAO (Movent of Jihad and Oness in West Africa) e Ansar al-Dine. Questa coalizione ha lanciato l’offensiva nella primavera del 2012 con cui le tre regioni settentrionali del paese, Gao, Timbuctu e Kidal sono state rapidamente sottratte al controllo governativo[4].

Anche se l’intervento diretto della Francia al fianco delle truppe maliane ha scongiurato l’avanzata della coalizione ribelle verso la capitale Bamako, le regioni settentrionali del paese restano in balia di questi gruppi armati.

Anche la Repubblica Centraficana è stata interessata da sconvolgimenti politici per effetto di ribellioni interne. La coalizione islamica dei Seleka con a capo Michel Djotodia, infatti, ad aprile del 2013 ha spodestato il presidente Froncois Bozizè costringendolo alla fuga in Camerun. Anche qui l’avvicendamento al potere è stato seguito da grave instabilità e sanguinosi scontri tra la popolazione cristiana e quella musulmana con centinaia di vittime.

Altri Paesi sono stati interessati da attacchi terroristici. In Niger il MUJAO, come ritorsione contro l’invio di truppe di Niamey in Mali, ha sferrato a maggio del 2013 due attacchi dinamitardi contro una caserma e un impianto di estrazione dell’uranio gestito dal colosso francese Areva. In Algeria, già bersagliata da innumerevoli attacchi, i militanti dell’AQIM hanno sequestrato il sito gasiero di In Amenas a gennaio del 2013.

E’ in questi già difficili scenari che i trafficanti di armi si insediano e trovano terreno fertile. La difficoltà di pattugliare i confini, l’inadeguatezza dei controlli di vaste aree fanno il resto per favorire la circolazione di armi leggere. Non mancano le responsabilità a livello internazionale. Gli stessi paesi che invocano la fine delle ostilità armate sono gli stessi che producono la stragrande maggioranza delle armi che insanguinano il continente.

Vincenzo  Gallo
vincgallo@alice.it

[1] SIPRI/Defenceweb, Military spending increased 8% in 2013, www.defenceweb.co.za, 16/4/2014

[2] Spread of Libyan weapons in the Sahel, www.aefjn.org

[3] Weapons and markets, www.smallarmsurvey.org

[4] Libya: Weapons Proliferation a

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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