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E’ morto Oriani-Ambrosini, italiano, deputato in Sudafrica e combattente anti-apartheid

Nostro Servizio Particolare
Davide Maggiore
23 agosto 2014
C’era un italiano, tra gli uomini e le donne che trattarono per portare il Sudafrica fuori dall’apartheid. Quello di Mario Oriani-Ambrosini non era un nome noto nel nostro Paese, ma il giurista che prese parte ai negoziati per la transizione democratica (CODESA) è stato deputato al Parlamento di Cape Town fino allo scorso 16 agosto, quando è morto, a 53 anni. Da oltre uno e mezzo combatteva con un cancro, incurabile, ai polmoni. All’inizio sembrava che fosse stata proprio la malattia ad ucciderlo, poi la famiglia ha specificato che il parlamentare aveva voluto “terminare la sua lunga battaglia contro la sofferenza”, decidendo di morire.

Il mondo politico sudafricano, intanto, aveva già ricordato Oriani-Ambrosini per ciò che aveva fatto in vita: per un giorno il deputato, che apparteneva al partito zulu Inkatha Freedom (IFP), è riuscito a mettere d’accordo maggioranza e opposizione. Un risultato non facile in Sudafrica, anche dopo vent’anni di democrazia e convivenza pacifica. “Negoziatore esperto e politico appassionato”, l’ha definito il partito di maggioranza, l’African National Congress che fu di Nelson Mandela. “È stato un combattente per i diritti umani e la democrazia, una persona integra” e “un grande uomo” si legge invece in un comunicato della Democratic Alliance d’opposizione, partito di centrodestra molto forte tra l’élite bianca del nuovo Sudafrica.

Ambrosini aveva continuato a essere presente in Parlamento fino all’ultimo: durante l’inaugurazione della legislatura, pochi mesi fa, nonostante ormai potesse reggersi in piedi solo usando un bastone, si era alzato dai banchi dell’opposizione per pronunciare il giuramento. E ancora il 15 luglio, magro, mostrando senza imbarazzo i tubi sottili delle apparecchiature mediche che era costretto a portare, era intervenuto sul budget per la giustizia, parlando nel suo inglese forbito (aveva studiato, tra l’altro, a Harvard e Georgetown, negli Stati Uniti) ma dall’accento italiano ancora riconoscibile.

Non lo aveva perso, nonostante fosse arrivato per la prima volta in Sudafrica nel dicembre 1990 in occasione dell’apertura della CODESA (Convention for a Democratic South Africa). Aveva appena compiuto trent’anni e avrebbe partecipato ai negoziati come consigliere giuridico dell’IFP. Ne fu escluso in un secondo momento, in base a una norma che impediva la presenza di stranieri e che molti considerarono ad personam, ma non smise di far parte del gruppo di esperti che affiancavano l’Inkatha e il suo leader, il principe Mangosuthu Buthelezi.

Figura quanto meno ambigua, quella di chief Buthelezi: in quegli anni cercava di ottenere la più ampia autonomia possibile per i territori del KwaZulu, e fu accusato di non aver fermato i guerrieri dell’IFP responsabili di sanguinosi attacchi – con la complicità dei nazionalisti bianchi – contro l’ANC di Mandela.

Dopo le elezioni del 1994, però, in base alla costituzione provvisoria, anche il capo zulu entrò nel governo. Ottenne il posto di ministro dell’Interno, che avrebbe conservato per 10 anni, anche sotto il successore di Mandela, Thabo Mbeki. Ambrosini fu nominato consigliere ministeriale, un ruolo che nel 1995 il settimanale Mail&Guardian lo accusò di interpretare in maniera “divisiva”, evidenziando – oltre all’ammontare del suo stipendio, più alto di quello del chief stesso – un suo presunto ruolo nell’elaborazione di una strategia “secessionista”.

Non è stato solo con la scelta di affiancare il controverso Buthelezi che Ambrosini ha mostrato di  voler andare controcorrente: in più di un’occasione, negli ultimi anni, si era scontrato col governo in carica. Si oppose, ad esempio, al cosiddetto Secrecy Bill, che prevedeva severe pene detentive per i giornalisti che avessero rivelato il contenuto di documenti riservati.

Fu in prima fila, inoltre, tra coloro che criticarono la scelta delle autorità – timorose della reazione cinese – di negare un visto d’ingresso in Sudafrica al Dalai Lama. Già nel 2009, del resto, non esitò a portare davanti alla Corte Costituzionale la sua azione legale contro i regolamenti parlamentari che mettevano limiti alla possibilità per i deputati di presentare proposte di legge in autonomia: una battaglia vinta tre anni dopo.

Proprio utilizzando quella che è da allora definita la “regola di Ambrosini”, aveva presentato, lo scorso anno un’ultima – molto discussa – proposta di legge, nello stile del partito radicale italiano, cui pure era iscritto. Chiedeva che fosse legalizzato, per fini terapeutici, l’uso della marijuana – o dagga, come è nota in Sudafrica – l’ultima sfida a quella medicina ufficiale che, al momento della diagnosi di cancro, gli aveva dato pochi mesi di vita. Per contrastare questa prospettiva, non aveva esitato a provare numerose terapie alternative e non riconosciute, criticando anche aspramente la comunità scientifica, in uno degli editoriali che scriveva per il noto sito Daily Maverick.

Lo stesso spirito polemico ne caratterizzava uno di due anni fa, dedicato all’Italia, che evidentemente non aveva dimenticato: davanti alle difficoltà dell’economia – che personalmente avrebbe affrontato con massicce dosi di ultra-liberismo, ispirate alle teorie libertarian statunitensi – Ambrosini non rinunciava al gusto della sfida che lo aveva accompagnato per tutta l’esistenza. “Ci serve un eroe”, e non si vede, era la sua conclusione.

Davide Maggiore
davide_maggiore@yahoo.it

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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