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I parenti dei migranti cercano i morti in mare, ma spesso è una lotta senza speranza

Nostro Servizio Particolare
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 30 luglio 2014
Oltre settantacinque migranti / richiedenti asilo hanno cercato di raggiungere le coste del sud Europa nei primi mesi di quest’anno, in barche fatiscenti e sovraccariche. Non tutti ce la fanno. Seconde le stime dell’UNHCR i morti sarebbero ottocento, ma ora bisogna aggiungere i centocinquanta che sono annegati proprio ieri notte a cento chilometri dalle coste di Tripoli. L’ennesima sciagura.

La redazione di Africa-ExPress riceve quasi giornalmente richieste di aiuto da parte di familiari che credono, temono, che un loro caro sia annegato, morto durante la traversata. Proprio oggi la parente di due ragazzi ci ha detto telefonicamente: “Non so dove siano. Hanno chiamato la mamma poco prima di imbarcarsi il 28 giugno 2014. Da allora non abbiamo più notizie. Hanno pagato millesettecento dollari a testa per arrivare da Khartoum in Libia. Poi sono stati sequestrati. Per la loro liberazione abbiamo pagato altri cinquemila dollari per ciascuno di loro, oltre millesettecento dollari a testa per la traversata. Dove sono, aiutateci a capire”.

Un marito e papà, Yafet Isaias Andebrhan che non ha più notizie dalla moglie e dalla figlia, anche loro dovevano imbarcarsi il 28 giugno, ci ha scritto: “Aiutatemi a tradurre. Io non capisco l’italiano. Le e-mail che arrivano dalle autorità italiane o dalla CRI sono scritte in italiano e google-translator  non è così preciso, poi non tutti abbiamo un pc a disposizione. Molti hanno solo un cellulare per comunicare ed è già molto. Io ora sono a Khartoum con l’altra mia figlia. Avremmo dovuto raggiungere mia moglie e la piccola, non appena avessi avuto i soldi”.

La settimana scorsa ventinove sono arrivati morti, soffocati nelle stive dei barconi per le esalazioni, altri sessanta, che hanno cercato di salire per evitare di soffocare, sono stati buttati in mare. Parecchi sono spariti, non si è saputo più nulla di loro. Hanno chiamato i parenti poco prima di imbarcarsi e poi più nulla. Probabilmente giacciono in fondo al mare. Difficile per i familiari avere notizie, capire cosa sia successo veramente ai loro cari.

Non c’è un sistema per identificare i morti affogati, ha denunciato ieri IRIN (un servizio dell’ONU, che si occupa di analisi e notizie umanitarie). Spesso i migranti viaggiano senza documenti, altre volte non informano nemmeno i familiari dei loro spostamenti per non creare ansie e ulteriori preoccupazioni.

Dopo la strage di Lampedusa dello scorso 3 ottobre, i migranti, i loro familiari e le organizzazioni per i diritti dell’uomo hanno fatto pressione sui governi: è loro diritto sapere se il congiunto è deceduto.  Quando non c’è un corpo, quando il figlio, fratello, marito sparisce in mare, è impossibile eseguire l’esame del DNA e il compito per dare risposte alle famiglie è ancora più arduo.

Simon Robins ricercatore dell’University of York’s Centre for Applied Human Rights e Iosif Kovras della Queen’s University, Belfast sostengono che è imperativo, dal punto di vista umano e morale, oltre che un dovere dal punto di vista legale, identificare i corpi recuperati dalla guardia costiera e dargli una degna sepoltura. Ma, c’è un grande ma: non esiste alcun capitolo di spesa nella contabilità della ragioneria dell’UE per i funerali dei migranti /richiedenti asilo deceduti durante la traversata in mare. Dunque i corpi o ciò che resta, viene sepolto in tombe anonime e i familiare non potranno mai piangere sul sepolcro del proprio caro.

Robins aggiunge che è importante cercare di ricostruire le generalità laddove c’è un corpo. Tanti altri non saranno mai ritrovati. La loro tomba eterna resterà il mare, anche se si potrebbe facilmente ricostruire dove è accaduto il naufragio, chi ha viaggiato nello stesso barcone.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) intervista i sopravvissuti una volta arrivati in Italia. I suoi uomini cercano di capire chi fosse stato con loro nella stessa barca e trasmettono i dati alle autorità competenti. Simona Moscarelli, un avvocato per i diritti umani dell’OIM, Roma, riferisce ad IRIN “Non appena i familiari sono a conoscenza di un nuovo naufragio, ci contattano immediatamente”.

Oggi, dopo oltre nove mesi dalla sciagura di Lampedusa, il cinquanta percento dei oltre 350 deceduti non è stato ancora identificato, anche se il personale incaricato ha raccolto il materiale necessario per effettuare il test del DNA, ma se manca quello di un familiare stretto, impossibile fare un confronto per stabilire se il corpo appartiene al congiunto. Morti senza nome. Morti due volte. Famiglie intere e mamme disperate, che continuano a vivere con il dubbio, dubbi che uccidono corpo e anima.

Lo scorso novembre la Croce rossa internazionale ha organizzato una conferenza proprio sul tema dell’identificazione dei corpi di migranti morti in mare. Manca un database per i corpi non identificati, ma ciò che è peggio, non c’è comunicazione tra le autorità competenti nazionali e regionali. Ora sono state stabilite delle norme per uniformare la raccolta dei dati dei defunti.

Anche se si tratta di compiti che devono essere svolti dalle autorità locali, è necessario coinvolgere l’UE per quanto concerne le risorse necessarie.

Canali sicuri, basta morti in mare. Basta corpi senza nome, basta congiunti disperati alla ricerca dei loro familiari, che hanno dovuto lasciare il proprio Paese per guerre, persecuzioni, miseria. Basta aggiungere dolore al dolore.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
twitter: @cotoelgyes

 

 

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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