Arrestati in Sudan 400 profughi eritrei, volevano raggiungere il campo UNHCR

Nostro Servizio Particolare
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 28 luglio 2014
Settantaquattro giovani donne eritree, alcune con i loro piccoli, altre incinte e trecentosettantaquattro uomini sono stati arrestati oltre tre mesi fa in Sudan, mentre cercavano di raggiungere Kassala, precisamente il campo profughi Shagarab, gestito dall’UNHCR. Sono scappati dall’Eritrea e per il loro Paese sono dei disertori. Servire lo Stato va bene, essere obbligati a prestare il servizio militare fino a cinquant’anni, obbedire, essere trattati da schiavi per un salario miserabile che non basta assolutamente per sfamare la famiglia, è disumano.

Meglio allora rischiare, andarsene.  Rischiare è la parola d’ordine di ogni profugo. Non era loro intenzione venire in Italia. Cercavano semplicemente protezione e assistenza nel campo di Shagarab. Un immensa estensione di povere capanne, suddivisa in tre sezioni, dove attualmente si trovano ventinovemila rifugiati, per lo più eritrei.

I nostri oltre quattrocento giovani non sono mai arrivati a Shagarab. La polizia sudanese li ha sbattuti in luride galere, gli uomini in una, le donne in un’altra. Sia alle donne che agli uomini  è stato vietato di parlare con il personale dell’UNHCR. Gli è stato impedito di dichiararsi “rifugiati” e pertanto vengono trattati come   criminali qualsiasi, compresi i bambini ed i nascituri. Incredibile, ma vero.

Qualche settimana fa gli uomini si sono dovuti sottoporre agli esami del sangue. Le autorità sudanesi volevano avere la certezza che non fossero affetti da HIV/AIDS, TBC o epatite; certamente non per curarli, in caso fossero risultati positivi ad uno dei test. La legge sudanese prevede che uno straniero affetto da AIDS/HIV deve lasciare immediatamente il Paese. C’è l’obbligo di dichiarare la malattia prima di entrare in Sudan e un viaggiatore comune deve anche allegare il certificato di vaccinazione alla domanda di visto.

Ora, ovviamente, un migrante, un richiedente asilo, che fugge dal suo paese, non è in grado di presentare tale documentazione, anche se si dovrebbe supporre che come ex-soldati dell’esercito eritreo siano persone in ottimo stato di salute.

Ora gli oltre quattrocento rifugiati temono il rimpatrio forzato. Certamente in patria nessuno stenderà un tappeto rosso per accoglierli . Anzi: ad attenderli ci sarà, un’altra putrida prigione, forse anche una condanna morte. Chi disobbedisce ad Isais Afewerki, presidente dell’Eritrea, è spacciato. La malcapitata vittima di turno sa quando entra in galera, ma non quando o se mai ne uscirà vivo. Non esistono regole per le condanne, spesso nemmeno i processi. Le famiglie dei detenuti che hanno osato opporsi al volere del dittatore vengono perseguitate dal regime. Altre sofferenze, altre vittime.

Poche settimane fa il Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (HRC) ha istituito una commissione d’inchiesta in Eritrea, considerato uno degli Stati più repressivi del mondo, paragonabile alla famigerata dittatura della Corea del Nord.

Ammirevole e coraggiosa la denuncia dei quattro vescovi cattolici eritrei che all’inizio di giugno hanno pubblicato una lettera “dov’è mio fratello”, lettera aperta nella quale denunciano soprusi della tirannide, non per ultimo la mancanza di libertà religiosa. Molti esponenti e guide religiose giacciono da anni in penitenziari eritrei. La loro colpa? Professare una religione non autorizzata dal regime.

Non è permesso disobbedire. Ed è per questo che alla fine dell’anno accademico 2005-2006 è stata chiusa  l’università di Asmara. Nel 2001 gli studenti avevano vivamente protestato contro il governo che stava per prendere il controllo totale dell’ateneo. Certo, lì viene incentivato e insegnato il libero pensiero, non gradito in una dittatura. Ora esistono svariati istituti tecnici, ma sono sempre retti da militari, dove vige una sola legge: obbedire.

Qualche settimana fa in un twitt c’era scritto: “L’Eritrea è l’unico Paese al mondo dove un bambino può tranquillamente giocare all’aperto, per strada, senza che gli succeda nulla”. Certo, bellissima questa libertà per un bambino, ma che futuro lo aspetta? Nessun futuro.

Recentemente il vice ministro agli esteri italiano con delega per l’Africa, Lapo Pistelli, è volato ad Asmara, dove ha incontrato il presidente Isayas Afewerki ed alcuni suoi ministri. E’ giusto cercare di aprire un dialogo anche con i dittatori, ma forse il ministro Pistelli avrebbe dovuto prima ascoltare la voce del popolo calpestato, sofferente, cosa che non è stata fatta nemmeno dal governo precedente. Non dimentichiamoci la presenza autorizzata dal ministro Angelino Alfano dell’ambasciatore eritreo a Lampedusa, dopo la tragedia del naufragio del 3 ottobre 2013. I morti erano tutti scappati dall’Eritrea, lontani dal  dittatore, eppure, anche dopo la morte, i suoi tentacoli sono arrivati fino alle loro bare, con il benestare dell’Italia. Dialogare sì, ma con i giusti interlocutori: diamo  voce ai disperati, non ai dittatori.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
twitter: @cotoelgyes

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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