Nostro Servizio Particolare
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 19 luglio 2014
Erano le undici ed un quarto quando è arrivata la telefonata da un numero satellitare. In un certo senso ero preparata, ma si spera ugualmente che certe chiamate non arrivino mai. Maru mi aveva scritto ieri sera che stava per imbarcarsi da un porto della Libia: “Cornelia, sono Maru, la nostra imbarcazione è in difficoltà. Abbiamo bisogno di aiuto. Stiamo imbarcando acqua. Siamo in centoquattro”. La comunicazione è difficile. La linea cade spesso. Mi richiamano. Immediatamente avverto la nostra Marina Militare, prendono nota del mio SOS.
Durante la giornata di oggi mi hanno ritelefonato spesso. Ho parlato con tante persone diverse, in lingue diverse. Ogni volta erano più disperati. Il carburante era terminato. Non avevano né cibo né acqua con sè. Maledetti trafficanti. Acqua, cibo e carburante pesano. Meglio imbarcare qualche persona in più, piuttosto che le cose di prima necessità. Il guadagno prima di tutto. Se poi muoiono, chi se ne frega. Intanto il pagamento va fatto in anticipo, come un qualsiasi biglietto di trasporto.
La guardia costiera mi avev raccomandato di trasmettere positività durante le telefonate. Una parola, specie se si è emotivamente coinvolti, come in questo caso. Africa-Express si è occupato altre volte di Maru, della sua famiglia.
Finalmente, verso le 20.00, ricevo la conferma che sono stati tratti tutti in salvo da una nave commerciale, aiutata dalla nave militare San Giorgio. Lacrime di gioia.
Maru ha perso la moglie durante un naufragio a giugno dello scorso anno, mentre stava venendo in Italia con la loro figlioletta. Non si sa dove sia ora la piccola Mekdes. L’abbiamo cercata ovunque. Si è come volatilizzata. Maru è un profugo etiope, viveva e lavorava a Khartoum (capitale del Sudan) fino a qualche mese fa, ma non si è mai arreso; si è licenziato, ha raccolte le sue poche cose ed è partito per la Libia, per raggiungere l’Italia, per cercare Mekdes.
Maru è una storia nella storia. Le persone che sbarcano nella nostra terra portano nell’anima dolori indelebili. Sofferenze atroci, spesso anni di galera per immigrazione clandestina nei vari Paesi che sono costrette ad attraversare per raggiungere la meta. Quasi sempre sono obbligate ad affidarsi a contrabbandieri, che non di rado le vendono a trafficanti di esseri umani. Ricatti e riscatti sono all’ordine del giorno. La morte è sempre in agguato, l’unico conforto sono i sogni, gelosamente custoditi, insieme ai ricordi del passato.
Sarebbe tanto più semplice se i consolati, le ambasciate dei governi occidentali aprissero le porte e rilasciasse un regolare visto, come da anni chiedono le associazioni per la difesa dei diritti umani. Un profugo non sceglie, spesso non ha altra scelta: quando viene a mancare il rapporto di fiducia tra cittadino e Stato, non resta altro che scappare, lasciare affetti, radici.
Il mondo occidentale ha costruito muri per proteggere le proprie frontiere, ma chi è disperato è disposto a sacrifici inimmaginabili, pur di conquistare un briciolo di liberta, il cui prezzo è altissimo. Spesso lo si paga con la vita. Il rifugiato lo sa. Ma è determinato nel ripetersi ogni giorno: “Forse ce la farò”.
Diceva Giacomo Leopardi: “Il forse è la parola più bella del vocabolario italiano, perché apre delle possibilità, non certezze. Perché non cerca la fine, ma va verso l’infinito…”
Cornelia I. Toelgyes
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