Dal Nostro Inviato Speciale
Ernesto Clausi
Malindi, 16 giugno 2014
Non si ferma la lunga scia di terrore in Kenya. Nella notte tra sabato e domenica una cinquantina di uomini armati ha fatto irruzione nella cittadina di Mpeketoni, trenta chilometri a sud di Lamu, 130 a nord di Malindi, rinomata località turistica al confine con la Somalia e meta del turismo occidentale più esclusivo. Per oltre cinque ore il nutrito commando, ben armato, ha messo a ferro e fuoco il villaggio intero, uccidendo quarantanove persone. Gli assalitori, dopo essersi impossessati di due matatu (mini bus usati per il trasporto locale in Kenya), alle otto e trenta circa (ora locale) sono entrati nel villaggio cominciando a sparare dai veicoli in corsa chiunque fosse sotto tiro. In quel momento molte persone si trovavano nei bar e nei ristoranti della piccola città per assistere alle partite del mondiale di calcio.
Il Deputy Commissioner di Lamu, Benson Maisori, ha dichiarato che gli uomini sventolavano delle bandiere Shebab, urlando in somalo e gridando ripetutamente “Allahu Akbar” (Allah è grande). Testimoni hanno riferito di aver udito i terroristi parlare in somalo. Successivamente gli assalitori hanno continuato il raid casa per casa, risparmiando (pare) donne e bambini. Altri riferiscono che, come era già successo a Westgate, gli assalitori avrebbero bussato porta a porta e sparato in testa a chiunque non fosse stato in grado di recitare i versi del Corano.
Il portavoce del Kenya Army Emmanuel Chirchir ha dichiarato che aerei militari si sono alzati in volo immediatamente dopo l’inizio dell’attacco, tuttavia pare che si siano visti sopra i cieli di Mpekotoni soltanto dopo qualche ora. La Croce Rossa ha confermato il numero delle vittime. Peraltro, dopo essere stati allontanati dal villaggio, i miliziani hanno continuato a uccidere nei villaggi vicini, e altri corpi sono stati ritrovati lungo le strade.
A Kibaoni, cinque chilometri fuori città, sono stati ritrovati i cadaveri di sei persone (incluso un bambino). Ciò a conferma del fatto che, seppur si volesse in linea di principio e secondo qualnto raccontato uccidere soltanto uomini adulti, si è sparato indiscriminatamente.
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Mpeketoni è una piccola cittadina lungo la principale strada costiera, frequentata da turisti locali. Si trova a circa 30 chilometri a sud di Lamu, affascinante destinazione turistica (soprattutto per britannici, americani e nord europei) che conserva ancora intatta la sua architettura swahili, considerata patrimonio mondiale dell’Unesco.
Le truppe del Kenya Defence Force sono entrate in Somalia nell’ottobre del 2011 (operazione Linda Nchi, ovvero proteggere la nazione”, con l’obiettivo di sradicare il movimento integralista dal sud della Somalia (quella che è conosciuta come Jubaland). In seguito l’intervento è stato integrato nella missione Amisom, condotta sotto l’egida dell’Unione Africana e composta da circa 22mila uomini.
Da allora il movimento integralista somalo ha intrapreso una campagna di terrore in Kenya, con attacchi a chiese, bus e luoghi affollati come mercati e stazioni di autobus e matatu, nelle aree di confine a Mandera e Garissa, ma anche a Nairobi e Mombasa. Su tutti si ricorda l’attacco al Westgate dello scorso settembre, che costò la vita a 67 persone.
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Il capo della polizia David Kimaiyo ha fatto appello alla calma, tuttavia le forze di sicurezza keniote vivono una fase delicata e di debolezza. Le attività di controterrorismo si sono rivelate finora fallimentari, anche perché la repressione dura delle forze di polizia, tradottasi in arresti arbitrari, detenzioni di massa ed omicidi extragiudiziali di leader religiosi che godevano di forte consenso popolare all’interno della comunità islamica (sotto accusa è l’Anti Terrorism Police Unit), ha contribuito ad accrescere il malcontento verso l’autorità centrale e a radicalizzare ulteriormente le fasce povere e senza lavor della popolazione (soprattutto giovani), spingendole cosi tra le braccia del fondamentalismo islamico.
Le rappresentanze diplomatiche occidentali (compresa quella italiana) hanno invitato i propri cittadini ad evitare di assistere agli incontri della Coppa del mondo di calcio nei locali pubblici, temendo quello che ieri è successo. Nel 2010, durante la finale tra Spagna e Olanda, delle bombe furono piazzate in due locali di Kampala, in Uganda, causando settantaquattro morti.
Stati Uniti e Gran Bretagna hanno rilasciato numerosi warnings nelle ultime settimane, invitando i propri cittadini ad evitare la fascia costiera del Kenya. La scorsa settimana il consolato britannico a Mombasa è stato chiuso, e a metà maggio cinquecento turisti provenienti dal Regno Unito sono stati evacuati. I due maggiori tour operators britannici hanno sospeso i voli da Londra per la città costiera keniota fino al 30 ottobre.
Ma in Kenya si fa strada, soprattutto tra la popolazione, un’altra chiave di lettura. Al processo di destabilizzazione del Paese contribuiscono attori interni che cercano di trarre profitto dal caos procurato dall’infiltrazione e dall’azione di elementi shabaab/qaedisti nel territorio nazionale. La serie di bombe a mano lanciate a Eastleigh, la “little Mogadishu” di Nairobi, e Pangani con frequenza settimanale hanno una matrice diversa dalla minaccia terroristica somala convenzionalmente intesa.
Oggi pomeriggio decine di giovani (presumibilmente pagati) hanno alzato delle barricate lungo Ngong Road, a Nairobi, cantando slogan anti Raila, prima di essere dispersi dalla polizia. Ciò è avvenuto immediatamente dopo le dichiarazioni del Ministro dell’Interno Joseph Ole Lenku, che ha parlato di “banditi” nell’attacco a Mpeketoni, e le cui parole sembravano un riferimento implicito alle responsabilità di Raila e del suo movimento CORD per i fatti di ieri. Una teoria che sta prendendo sempre più piede tra la popolazione kikuyu, contribuendo ad alzare cosi il livello di tensione interetnica.
Il viaggio di Raila negli USA conferma peraltro la volontà della comunità occidentale di supportare il percorso politico dello stesso, come alternativa all’attuale classe dirigente. L’impressione è che il capo dell’opposizione sia tornato con le “spalle coperte”, economicamente e ideologicamente. La comunità internazionale non ha mai fatto mistero di preferire la vittoria di Odinga a quella di un candidato sotto processo per crimini contro l’umanità.
L’elezione di Kenyatta ha provocato imbarazzo nella comunità internazionale, che cerca in linea di principio di mantenere una linea diplomatica rigida e di isolamento nei confronti di chi è sotto processo alla Corte Penale Internazionale. Le recenti misure prese dal Foreign Office britannico (evacuazione dei turisti, chiusura del consolato di Mombasa) sottolineano il pericolo della minaccia terroristica, ma anche la lontananza politica della comunità occidentale dalla visione politica dell’amministrazione Kenyatta.
Ernesto Clausi
e.clausi@hotmail.com
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