Nostro Servizio Particolare
Cornelia I. Toelgyes
9 maggio 2014
Persecuzioni, guerre, miseria nera: ecco cosa spinge migliaia di persone a lasciare la propria patria, le radici e gli affetti più cari per cercare un nuovo inizio altrove. C’è chi sceglie di recarsi negli Emirati Arabi, attraversando lo Yemen, chi in Europa, imbarcandosi in Libia per le nostre coste, l’unica porta d’ingresso per il mondo occidentale. La maggior parte di loro proviene dal Corno d’Africa o dal Medio Oriente. La guerra in Siria ha fatto la sua parte. Il più delle volte, se vuoi sopravvivere, non hai altra scelta. Diventi un rifugiato.
Ecco come si presenta la situazione per un rifugiato/migrante nello Yemen:
Dieci giorni fa un barcone con sessantadue persone a bordo, due scafisti yemeniti e sessanta migranti provenienti dalla Somalia e dall’Etiopia è affondato in acque territoriali dello Yemen. Tutti affogati, nessuno li ha soccorsi. I loro corpi sono stati ritrovati in mare e gli abitanti della costa yemenita nell’area dello stretto di Bab el Mandeb li hanno pietosamente sotterrati. Senza nome.
In una conferenza stampa un portavoce dell’ONU ha spiegato che, dall’inizio dell’anno, centoventuno persone hanno trovato la morte in quel tratto di mare, cercando di raggiungere dall’Africa lo Yemen.
Jemale, un ragazzo di vent’anni, proveniente dall’Etiopia, ha raggiunto la costa asiatica insieme ad altri amici. Erano felici, non hanno avuto problemi durante la traversata. Sapevano che dovevano stare attenti ora, avevano sentito parlare dei trafficanti di uomini in Yemen ed è per questo che, una volta sbarcati durante la notte, si sono nascosti.
Il giorno dopo hanno avvertito i primi sintomi della fame e della sete e, in ricerca di cibo, si sono imbattuti in un vecchietto con un cammello. Era gentile. Aveva promesso di aiutarli. Invece li ha venduti ai trafficanti di uomini.
Jemale prosegue la sua testimonianza a Medici Senza Frontiere (MSF): “Ci ha portato in una casa dove c’erano già otto persone con un’espressione terrorizzata. I trafficanti ci hanno chiesto di metterci in contatto con parenti e/o amici in grado di inviarci dei soldi. Molti soldi. Ho cercato di spiegare che ero povero. Allora ho visto che hanno messo un pezzo di metallo dentro il fuoco. Una volta rovente, mi hanno bruciato la gamba”.
Il ragazzo è riuscito a scappare da quell’inferno insieme a un amico. Mentre fuggivano, il compagno è stato colpito da una pallottola alla gamba. Non ha più saputo nulla di lui. Per giorni e giorni Jemale si è nascosto nelle montagne, senza cibo né acqua. Stava quasi per arrendersi, poi, dopo dodici lunghi, infiniti giorni è arrivato a Sana’a, la capitale dello Yemen.
Jemale ha lasciato in Etiopia nove fratelli e i genitori. Una volta terminata la scuola, era senza impiego. In casa i soldi erano pochi. Allora tutti i componenti della famiglia insieme a lui hanno deciso che sarebbe stato meglio se fosse partito. Ai trafficanti aveva raccontato che era orfano di madre e che non poteva chiedere soldi a nessuno per la sua liberazione.
Ora si trova in un centro di detenzione per migranti nella capitale yemenita. E’ sovraffollato. Non potrebbe contenere più di duecentocinquanta persone, invece ce ne sono oltre settecentocinquanta. Sono tutti rinchiusi in grandi celle per la maggior parte della giornata. Le loro condizioni di vita sono pessime. “La Croce Rossa yemenita e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) danno loro assistenza medica – riferisce Esperanza Leal di Medici senza frontiere (MSF) -. I migranti, se riescono a fuggire dai campi di tortura, giungono nel centro di detenzione traumatizzati psicologicamente e fisicamente. Rimangono qui, finchè non sono pronti i documenti per il rimpatrio”.
L’organizzazione che denuncia le violazioni dei diritti umani Human Rights Watch (HRW) ha stilato un documento di oltre ottanta pagine a proposito dei campi di tortura a Haradh , dove sembra che ce ne siano una dozzina.
Le persone, una volta sbarcate, vengono fermate ai checkpoint e vendute dalle stesse forze dell’ordine ai trafficanti. Questi li caricano su dei camion, con la promessa di accompagnarli al confine con l’Arabia Saudita o altri paesi del Golfo. In vece li portano nei campi di tortura per estorcere soldi ai parenti.
“Nelle prossime settimane – racconta Eric Goldstein, vice-direttore di HRW per il Medio-oriente ed il nord-Africa – il Parlamento yemenita dovrebbe approvare una nuova legge contro il traffico di esseri umani, per poter perseguire penalmente i trafficanti secondo standard internazionali.
Nello Yemen arrivano anche molti cittadini eritrei. Scappano da un regime autoritario, che toglie persino l’aria . Non c’è libertà di religione, servizio militare obbligatorio: si sa quando inizia, ma non quando termina, con un salario da fame, che non permette di mantenere la famiglia. I disertori vengono puniti con cinque anni di prigione. Non sempre se ne esce vivi, se si esce.
Oltre duecento eritrei, tra loro anche donne e bambini, vivono per strada, nella via Taiz a Sanaa. Per un certo periodo sono stati nella prigione di Hodeida, poi, una volta ottenuti lo status di rifugiato dall’UNHCR, la stessa Agenzia li ha trasferiti in un albergo, facendosi carico delle spese. Dalla fine di aprile sono in possesso del documento per rifugiati rilasciato dalle autorità yemenite e nessuno si prende più cura di loro; sono senza lavoro, senza denaro. Qualcosa nel lungo iter burocratico non ha funzionato. Ormai è risaputo che quando si diventa un rifugiato, si dipende dalla benevolenza delle Istituzioni .
La situazione in Libia
Molti altri rifugiati/migranti scelgono un’altra via di fuga. Danno in mano la loro vita a “contrabbandieri /guide”, che li aiutano ad attraversare svariati Paesi africani (Sudan – Egitto – Libia). Spesso vengono arrestati ugualmente per immigrazione clandestina o abbandonati nel deserto del Sahara da “guide” disoneste. Spesso muoiono di stenti all’insaputa del mondo, altre volte marciscono per anni in squallide celle sudanesi o egiziane nell’attesa del rimpatrio forzato.
Molti altri riescono dopo mesi, a volte anni, raggiungere la Libia, ma non tutti hanno la fortuna di potersi imbarcare. La Libia è un paese pericoloso, a maggior ragione per chi proviene dall’area sub-sahariana ed è cristiano.
Pochi giorni fa in una conferenza stampa il portavoce dell’ONU, Rupert Colville ha dichiarato alla Reuters: “Quattordicimila tra libici e rifugiati provenienti dal Medio-Oriente e dalle aree sub-sahariane sono rinchiusi in galere sovraffollate in Libia, settemila sono migranti. Spesso vengono torturati, attendono invano i processi, non hanno alcuna assistenza medica. Alcuni si trovano lì dal 2011. Durante il mese di ottobre 2013 sono morte ventisette persone. Abbiamo ragione di credere che siano decedute a causa delle torture subite dalle milizie”.
Ma c’è di peggio, se si riesce a immaginare che esista di peggio. I trafficanti di uomini sono in agguato ovunque. La “merce umana” rende bene e gli affamati di soldi facili ci sono anche in Libia. I reporter della BBC in un recente articolo hanno magistralmente descritto un “lager”, dove sono detenuti oltre quattrocento uomini, alcuni da più di tre mesi.
Sono ammalati, lo sguardo assente, sono di nazionalità diverse, alcuni provengono persino dal Bangladesh e dal Pakistan. Sono coperti da cimici e altri parassiti, lo spazio è talmente ristretto che a malapena riescono stare seduti, figuriamoci sdraiarsi e dormire. Tra i prigionieri ci sono anche ragazzini di quindici, sedici anni. In un angolo, un uomo proveniente dal Gambia, ancora più sofferente degli altri. Ha ferite da arma da fuoco. Non vuole rivelare chi gli ha sparato.
Un signore di origine eritrea conferma che ha pagato milleseicento dollari per essere accompagnato da Khartoum fino in Libia; malgrado ciò è caduto nelle mani dei trafficanti, quando pensava di essere vicino alla salvezza.
Spesso si muore durante la traversata, anche se è breve: trecentoventi chilometri dalla costa libica alle coste italiane. Un dipendente della camera mortuaria di Misrata, Haj Ramadan, afferma: “Le celle frigorifere sono così piene di migranti, che faccio fatica a chiuderle. Una volta ne morivano al massimo tre all’anno. Ora sono otto alla settimana”.
Ieri un giovane migrante ha baciato la terra, la nostra terra, appena sceso dalla nave della Guardia Costiera che lo ha portato a Pozzallo. Sa bene che anche qui in Europa la vita non sarà rosa e fiori, ma lui è vivo. Ed è quello che conta.
Questo giovane forte baobab
strappato dalla sua terra,
trasportato e dopo
un lungo viaggio,
piantato
su un pezzo di prato
relegato ai margini della
strada
nella grande città del nord
ebbene, credimi
se sarà abbastanza forte
da non morire
avrà energia per un solo sentimento:
la nostalgia.
(Hamid Barole Abdu, poeta eritreo)
Cornelia I. Toelgyes
cornelicit@hotmail.it
twitter: @cotoelgyes
(2 – fine)
La prima puntata la trovate qui
non è che li accogliamo tutti noi, la maggior parte restano in Africa in campi profughi sradicati dalla loro vita. Non so le percentuali, ma da noi ne arriva una minima parte.
Oltre alle migrazioni interne verso paesi più stabili, fino a 10 15 anni fa c’era anche la Costa d’Avorio, ci sono anche i profughi ai confini delle loro patrie, come nel nord del Congo ex Zaire e sempre lì le vittime dello sfruttamento di ricchezze come il coltan che rendono pericoloso per la vita rimanere in zona. Ci sono circa 200.000 saharawi che vivono nel deserto algerino in 4 città intorno a Tindouf nate in uno dei più desolati posti del Gahara, l’Hammada du dra ovvero il deserto del diavolo. Loro sono lì da 39 anni un attesa di un referendum di autodeterminazione che forse non si rweeà mai. Ed altre numerose situazioni, a volte temporalmente più lunghe do quella dei saharawi. Come dice Massimo Alberizzi i flussi non si possono fermare i più ottimisti pensano che si possano regolare. E del resto noi siamo tutti mescolati, Nella mia Verona ci sono tantissimi antenati tedeschi o asiatici, per non parlare degli stessi romani che sotto Augusto popolarono una parte ella provincia. Ora abbiamo altre migrazioni, sia città che provincia hanno fra l’11 e il 12 percento di residenti stranieri. Di tutto il mondo e in decine o centinaia di anni ci rimescoleremo di nuovo come è successo già un paio di volte nella storia della mia zona. Sono convinto che il futuro dell’Italia dipenda molto dai nuovi italiani, i loro figli sono più motivati sono più simili a noi nati prima del 1960 e dopo la guerra che i nostri figli. Anni fa ho assistito ad una scena in un ipermercato. Due africani, marito e moglie con due figli scatenati U genitori parlavano fra di loro in una lingua che non capivo, con i figli parlavano in inglese e i due scatenati parlavano fra i loro il dialetto veronese. Scusate la lunghezza.