Dall’Africa allo Yemen, la vita dei migranti in fuga tra angherie e torture

Nostro Servizio Particolare
Cornelia I. Toelgyes
9 giugno 2014
Persecuzioni, guerre, miseria nera: ecco cosa spinge migliaia di persone a lasciare la propria patria, le radici e gli affetti più cari per cercare un nuovo inizio altrove. C’è chi sceglie di recarsi negli Emirati arabi, attraversando lo Yemen, chi in Europa, imbarcandosi in Libia per le nostre coste, l’unica porta d’ingresso per il mondo occidentale. La maggior parte di loro proviene dal Corno d’Africa o dal Medio Oriente. La guerra in Siria ha fatto la sua parte. Il più delle volte, se vuoi sopravvivere, non hai altra scelta. Diventi un rifugiato. Ecco come si presenta la situazione per un rifugiato/migrante nello Yemen.

Dieci giorni fa un barcone con sessantadue persone a bordo, due scafisti yemeniti e sessanta migranti provenienti dalla Somalia e dall’Etiopia è affondato in acque territoriali dello Yemen. Tutti affogati, nessuno li ha soccorsi. I loro corpi sono stati ritrovati in mare e gli abitanti della costa asiatica dello stretto di Bab el Mandeb (“la porta del dolore funebre”, in arabo) li hanno sotterrati. Senza nome. In una conferenza stampa un portavoce dell’ONU ha raccontato che dall’inizio dell’anno centoventuno persone hanno trovato la morte in quel tratto di mare, cercando di raggiungere lo Yemen.

Jemale, un ragazzo di vent’anni, proveniente dall’Etiopia, ha raggiunto la costa dello Yemen insieme ad altri amici. Erano felici, non hanno avuto problemi durante la traversata. Sapevano che ora dovevano stare attenti. Avevano sentito parlare dei trafficanti di uomini in Yemen ed è per questo che, una volta sbarcati durante la notte, si sono nascosti. Il giorno dopo hanno avvertito i primi sintomi della fame e della sete e, in ricerca di cibo, si sono imbattuti in un vecchietto con un cammello. Era gentile. Aveva promesso di aiutarli. Invece li ha venduti ai trafficanti di uomini.

Jemale prosegue la sua testimonianza a Medici Senza Frontiere (MSF): “Ci ha portato in una casa dove c’erano già otto persone con un’espressione terrorizzata. I trafficanti ci hanno chiesto di metterci in contatto con parenti e/o amici in grado di inviarci dei soldi. Molti soldi. Ho cercato di spiegare che ero povero. Allora ho visto che hanno messo un pezzo di metallo dentro il fuoco. Una volta rovente, mi hanno bruciato la gamba”.

Jemale è riuscito a scappare da quell’inferno insieme ad un amico. Mentre fuggivano, l’amico è stato colpito da una pallottola alla gamba. Non ha più saputo nulla di lui. Per giorni e giorni Jemale si è nascosto nelle montagne, senza cibo ne acqua. Stava quasi per arrendersi, poi, dopo dodici lunghi, infiniti giorni è arrivato a Sana’a, la capitale dello Yemen.

Il ragazzo ha lasciato in Etiopia nove fratelli e i genitori. Una volta terminata la scuola, era senza impiego. In casa i soldi erano pochi. Allora tutti i componenti della famiglia insieme a lui hanno deciso che sarebbe stato meglio se fosse partito. Ai trafficanti aveva raccontato che era orfano di madre e che non poteva chiedere soldi a nessuno per la sua liberazione.

Ora si trova in un centro di detenzione per migranti nella capitale. E’ sovraffollato. Non potrebbe contenere più di duecentocinquanta persone, invece ce ne sono oltre settecentocinquanta. Sono tutti rinchiusi in grandi celle per la maggior parte della giornata. Le loro condizioni di vita sono pessime.

“La Croce Rossa yemenita e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) danno loro assistenza medica – riferisce Esperanza Leal di Medici senza frontiere (MSF) –  I migranti, se riescono a fuggire dai campi di tortura, giungono nel centro di detenzione traumatizzati psicologicamente e fisicamente. Rimangono qui, finchè non sono pronti i documenti per il rimpatrio”.

Human Rights Watch (HRW), altra organizzazione non governativa che si occupa di difesa dei diritti umani, ha stilato un documento di oltre ottanta pagine a proposito dei campi di tortura a Haradh. Sembra che ce ne siano una dozzina. Le persone, una volta sbarcate, vengono fermate ai checkpoint e vendute dalle forze dell’ordine ai trafficanti.  Questi li caricano su dei camion, con la promessa di accompagnarli al confine con l’Arabia Saudita o altri paesi del Golfo. Invece li portano nei campi di tortura per estorcere soldi ai parenti.

“Nelle prossime settimane – dichiara Eric Goldstein, vice-direttore di HRW per il Medio-oriente ed il nord-Africa – il Parlamento yemenita dovrebbe discutere una nuova legge contro il traffico di esseri umani, per poter  perseguire penalmente i trafficanti secondo standard internazionali.

Nello Yemen arrivano anche molti cittadini eritrei. Scappano da un regime autoritario, che toglie persino l’aria. Non c’è libertà di religione, servizio militare obbligatorio: si sa quando inizia, ma non quando termina, con un salario da fame, che non permette di mantenere la famiglia. I disertori vengono puniti con cinque anni di prigione. Non sempre se ne esce vivi, se si esce.

Oltre duecento eritrei, tra loro anche donne e bambini, vivono per strada, nella via Taiz a Sana’a. Per un certo periodo sono stati nella prigione di Hodeida, poi, una volta ottenuti lo status di rifugiato dall’UNHCR, la stessa agenzia li ha trasferiti in un albergo, facendosi carico delle spese. Dalla fine di aprile sono in possesso del documento per rifugiati rilasciato dalle autorità yemenite e nessuno si prende più cura di loro; sono senza lavoro, senza denaro. Qualcosa nel lungo iter burocratico non ha funzionato. Ormai è risaputo che quando si è un rifugiato, si dipende dalla benevolenza delle Istituzioni.

Cornelia I. Toelgyes
cornelicit@hotmail.it
twitter: @cotoelgyes
(1 – Continua)

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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