Dal nostro inviato
Massimo A. Alberizzi
Abalak (Niger centrale), 23 agosto 2005
Le donne vestite di nero, con la pelle scurissima e il volto incorniciato da un paio di orecchini e da una collanina d’oro, si avvicinano all’auto sorridenti. Vogliono vendere panetti di formaggio di capra. L’autista, Addu, ne è goloso e ne acquista un paio. “Queste sono le schiave dei tuareg – spiega –. Il ricavato di ciò che vendono finisce direttamente nelle tasche dei loro padroni che le ricompenserà con un paio di pugni di miglio in più”.
Ajudat, 35 anni, rimane stupita e sorpresa quando le chiedo – attraverso Addu che fa da interprete – di poterle rivolgere alcune domande. “Questo capo bianco vuol parlare con me che sono una taklit, una schiava?”. “Vorrebbe portarti via e liberarti a Niamey” (la capitale del Niger, ndr)”, le risponde l’autista. Lei scoppia in una risata. “E il padrone? Chi glielo dice al padrone? E poi che ci vado a fare laggiù? Il marabù mi ha detto che se scappo, o denuncio il mio maitre, Allah mi trasformerà in una capra e poi addio al paradiso che mi aspetta dopo la morte. No, no, questo è il mio posto e io resto qui”.
Il marabù è il gran sacerdote che da queste parti ha saputo coniugare i precetti dell’islam con quelli delle più antiche tradizioni animiste africane. Il risultato è strabiliante: all’inizio del terzo millennio, giocando sulla superstizione, sui tabù e sulle disgrazie umane, il marabù riesce a far credere agli schiavi che la loro condizione è una benedizione di Dio e quindi va accettata perché non durerà in eterno: chi si rassegna alla volontà di Allah, alla fine verrà ricompensato, dopo la morte, con il paradiso. Quello sì che durerà in eterno! Chi si ribella in vita, invece sarà punito e andrà all’inferno.
Ma il vero inferno, per gli schiavi, intanto è quaggiù. La loro vita è crudele e scandita dall’obbedienza e dal lavoro.
Si calcola che in Niger ci siano 870 mila schiavi – al servizio delle tre grandi tribù: i poel, i djermà e i tuareg, ma non della quarta, gli hausa – su 13 milioni di abitanti. Le condizioni di vita di questi poveracci sono disumane: le donne ogni giorno percorrono chilometri e chilometri nel deserto infuocato di sabbia per raggiungere un pozzo, caricare gli otri d’acqua, tornare a casa e poi rigovernare e cucinare; gli uomini badano agli animali, raccolgono la legna, montano e smontano tende e capanne durante le migrazioni dei padroni nomadi. Riposo è un termine sconosciuto, come, per altro, scuola, salario, medicine, diritti… Lo schiavo si sveglia per primo e va a dormire per ultimo. La disobbedienza viene punita con la severità necessaria a servire d’esempio. Insulti, botte violenze e poi stupri per le donne e castrazione per i maschi particolarmente riottosi.
I marabù, naturalmente, sono quelli che posseggono il maggior numero di schiavi. I padroni, pelle bianca, hanno nomi arabi; gli schiavi, pelle nerissima, come il carbone, nomi africani. Ma ci sono anche padroni dalla pelle nera e dai nomi africani che comandano neri come loro.
In Niger è rimasta soltanto la schiavitù ereditaria e per via materna. Formalmente anche quella è vietata dalla legge; sostanzialmente i bellà (o taklit, come vengono chiamati a seconda delle tribù) vivono in condizioni di plagio psicologico che si può riassumere così: “Siamo nati per servire e moriremo servitori”, nella fanatica convinzione di andare in paradiso dopo la morte.
Weila Ilguilas è il presidente dell’organizzazione Timidria (“Solidarietà e fraternità” in tamashek, la lingua tuareg) che dal 1991, lotta contro la schiavitù in Niger. Timidria, riconosciuta da Anti-Slavery International, è assai critica con il governo del Niger e con il suo presidente Mamadou Tandja (uno dei pochi eletti democraticamente in Africa): “Combatte lo schiavismo solo a parole, in realtà non solo lo tollera, ma non favorisce le pratiche per abolirlo e liberare chi è senza libertà”, spiega Weila.
In febbraio scorso Weilà è stato messo in carcere per 48 giorni, accusato di aver distratto i fondi della sua organizzazione. “Tutto falso. Volevano solo intimidirci. Infatti le accuse sono cadute e mi hanno liberato senza processo”. Poi mostra una lettera che sarebbe all’origine dell’arresto. La scrive Arrissak Amdagh, capo tuareg del raggruppamento nomade di Tahabanatt. Su carta intestata “Repubblica del Niger – Regione di Tillabery”, datata 28 settembre 2004, il leader tribale annuncia ”la decisione solenne di abolire ufficialmente tutte le pratiche di schiavitù, come sancito dalla legge” e quindi di liberare “più di 7000 persone considerate come schiave”.
Arrissak – che quindi ufficialmente sostiene per iscritto: “Qui esistono gli schiavi”, cosa sempre negata dal governo – chiede l’aiuto di Timidria “per il reinserimento nella società di queste vittime”. La sua iniziativa ha indispettito il governo, giacché molti dei suoi membri – secondo l’organizzazione – si servono di schiavi. “Temono che qualcuno possa imitare gesti come questo e che i bellà prendano coscienza delle proprie condizioni e si ribellino. Da qui il tentativo di screditarci”.
Naturalmente la grande cerimonia programmata per la liberazione il 25 febbraio è stata annullata e i 7000 disgraziati sono rimasti ancora sotto il loro padrone.
Maman Abou è figlio del capo tuareg di una potente tribù che vive vicino a Niamey dirige il giornale progressista e antigovernativo Le Républicain: “Mio padre aveva un numero enorme di schiavi, uomini donne bambini”, racconta. Duecento? “No, no, molti di più. Ma facevano parte della famiglia. Noi, figli del padrone, giocavamo con loro e con i loro figli, che venivano a scuola con noi. Mio padre ha creato le condizioni perché potessero essere affrancati, ha cominciato a pagar loro un salario, a permettergli il possesso delle loro cose e infine ha loro detto:’ se volete potete andare via’. Pochi se ne sono andati. Ma la seconda generazione, cioè i loro figli hanno quasi trovato una propria strada e se ancora lavorano per la mia famiglia sono pagati, hanno le loro case e non devono scattare a ogni ordine. Soprattutto non hanno più paura di diventare una capra”. Ride Maman Abou, ma non tutte le famiglie tuareg sono come la sua.
E’ vero non esiste più il mercato pubblico degli schiavi, ma il loro commercio è ancora vivo anche se clandestino. Vengono regalati o venduti sottobanco e nella loro vita possono passare da un padrone all’altro. Le famiglie dei signori, gli imijighane, i ricchi, i nobili che vengono prima solo dei marabù, riconoscono e disprezzano chi appartiene alla classe “ inferiore e negletta” degli schiavi.
Nei villaggi del Niger colpiti dalla carestia, il cibo sta pian piano arrivando, grazie agli sforzi del World Food Programme, l’agenzia dell’Onu che opera nelle aree più disastrate del pianeta. Un sacco o due a famiglia, utili per sfamare i padroni. Nulla è previsto per gli schiavi. Per loro restano solo le briciole.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @mlberizzi
Le foto sono di Massimo A. Alberizzi
Ti può interessare anche: