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Niger, a colloquio con gli schiavi: ”Cos’è la libertà”?

Dal nostro inviato
Massimo A. Alberizzi
Tchintabaraden (Niger), 29 Giugno 2004

“No, signore. Io sono una taklit, una schiava. Non posso venire via con te. Appartengo al mio padrone”. Ma chi è il tuo padrone? “Si chiama Mussa ed è capo villaggio a Garò. E’ lui che decide dove posso andare”. Altana Algamis dice di avere 35 anni. I suoi occhi sono neri come il carbone e penetranti come una spada. La incontro davanti a un pozzo, a un’ottantina di chilometri da Tchintabaraden, un villaggio tuareg in Niger, arrostito dal sole, nella cintura semidesertica del Sahara meridionale.

Prende l’acqua assieme ad altre donne, alcune più giovani, che hanno il loro bimbo attaccato alla schiena come fanno tutte le mamme africane. “Se vieni con noi potrai avere un tuo lavoro, un giorno di riposo alla settimana e poi soprattutto la tua libertà”, le spiega Amaloz Al Gamiss, che fa da interprete dal francese alla lingua tamashek, quella dei tuareg. “Cos’è la libertà? – chiede lei tranquilla –. Qualcosa che si mangia?”.

Le altre donne, colpite da quella conversazione, si avvicinano, scoppiano a ridere perché non capiscono di cosa stia parlando quello straniero che ha la pelle bianca (ma loro dicono rossa) identica a quella dei loro padroni. Altana, hai un marito? “Sì, certo. Si chiama Wassididan ed è schiavo anche lui. Alleva gli animali del nostro maître”. Chi ha deciso che dovevate sposarvi? I vostri genitori? Altana scoppia in una risata. “Il padrone, naturalmente. E’ lui che ha stabilito anche la dote”. Beh, allora ti ha dato qualcosa. “Sì. Ha disposto una dote di 4 capre”. Che vi siete spartite tu e Wassididan? “No, noi non possiamo possedere nulla. Tutto quello che abbiamo appartiene al padrone”. Quindi anche le capre! “Certo. Infatti dopo avercele date, se l’è riprese”.

E la collanina di perline che hai al collo? E gli orecchini? “Me li ha regalati il padrone, ma sono suoi”. E i due figli Al Kassan e Agali? “Sono grandi ormai. Non so bene dove siano finiti. Probabilmente in Libia”. Sono scappati o sono stati venduti? “Non lo so”. Cos’è la Libia? “Qualcosa che è lì, oltre l’orizzonte. Li aspetto perché un giorno torneranno”.

Amaloz insiste per farla partire con noi. “Andiamo a prendere tuo marito nella piana dove sta pascolando gli animali, abbandonate tutto e venite via con noi. A Niamey troverai in lavoro. Cos’è che desideri di più? “Dormire. Vorrei poter non alzarmi alle quattro del mattino e andare a coricarmi alla sera tardi”.

“Allora vieni con noi”, incalza Amaloz. E lei scuotendo la testa, spaventata, preoccupata e abbandonando il suo cordiale sorriso: “Io conosco solo questo posto. Se mi allontano avrò sicuramente grandi problemi. Il marabù mi ha detto che non posso lasciare il padrone altrimenti potrei morire o essere trasformata in animale. Io non voglio diventare una capra”!

Il marabù è il gran sacerdote del villaggio. Una sorta di imam musulmano che ha “ereditato” i poteri magici dalla stregoneria animista africana, più efficaci, da queste parti, di quelli del Profeta. E’ lui che considera gli schiavi una benedizione di Dio e che, così, ne giustifica l’esistenza. I marabù, in effetti, sono quelli che posseggono il maggior numero di schiavi.

Loro e la loro famiglia non fanno nulla. Non muovono un dito. Esercitano solo il potere assoluto su una moltitudine di poveracci che dipendono in tutto e per tutto da loro: donne che percorrono chilometri e chilometri nel deserto infuocato di sabbia per raggiungere un pozzo, caricare gli otri d’acqua, tornare a casa e poi rigovernare e cucinare; uomini che badano agli animali, raccolgono la legna, montano e smontano tende e capanne durante le migrazioni dei padroni nomadi.

La vita degli schiavi si può riassumere in due parole: obbedienza e lavoro. Condizioni terribili nelle quali l’uomo è ridotto a una macchina. Riposo è un termine sconosciuto. Lo schiavo si sveglia per primo e va a dormire per ultimo. La disobbedienza viene punita con la severità necessaria a servire d’esempio. Per i maschi è prevista perfino la castrazione.

Aljaoudat ha 25 anni. Seduta su un asino traballante sta portando a casa gli otri stracolmi d’acqua. All’inizio nega di essere una schiava ma viene tradita dagli abiti, neri, e dai monili fatti con perline colorate. Sembra quasi un’uniforme quella che indossano le donne senza libertà, ben diversa dai multicolori vestiti e dagli orecchini e collane d’oro o d’argento delle loro padrone.

Così Aljaoudat racconta la sua vita. “Sono nata schiava e Dio mi ha creato per questo. Quando avrò finito questa vita, finalmente raggiungerò il paradiso che mi è stato promesso. I miei genitori erano schiavi di Muala Mugaiala, il mio padrone che ora comanda su 200 persone: 100 uomini, 50 donne e 50 ragazzi. Sai, è una persona importante – aggiunge senza nascondere una punta d’orgoglio -. Lui va sempre a Niamey a parlare con i ‘capi’”.

Aljaoudat non ha mai visto una televisione e non sa bene cosa sia l’energia elettrica. In compenso sa accendere uno scoppiettante fuoco sbattendo per meno di mezzo minuto due pezzi di selce.

Il padrone di Idiokul si chiama invece Abdullahi: “Ogni tanto fa le feste con i suoi amici e alla fine chiede loro di appartarsi con noi, così ci mettono incinte e partoriamo un altro schiavo”. Lo schiavismo, infatti, in Niger è soltanto ereditario. I figli degli schiavi sono schiavi, mentre nessun altro può essere ridotto in schiavitù.

Ma com’è la tua vita? “Mi alzo prima dell’alba e preparo il the e la colazione per il padrone le sue due mogli e i loro figli. Poi vengo al pozzo e ci metto parecchio tempo”. Quante ore? “Cos’è l’ora?”. Va bene continua. “Quindi torno a casa e cucino, spazzo le tende in continuazione perché sabbia e polvere qui entrano dappertutto. Per tutto il giorno, ma anche la notte, eseguo gli ordini dei miei padroni. Scatto appena mi chiamano e questo può accadere in qualunque momento”.

E se non scatti? “La punizione può essere terribile. Abdullahi mi picchia o mi lascia senza mangiare o mi fa accoppiare con un uomo diverse volte in un giorno. Sono sommersa poi dagli insulti, anche se non disubbidisco”. Hai mai pensato di scappare? “E perché mai? Io eseguo solo la volontà di Dio. Certo mi pesa un po’, però prima o poi finirà”.

Se si ammalano, gli schiavi lavorano lo stesso e nessuno passa loro una medicina. I vecchi che hanno perso le forze e non servono più, in caso di malattia vengono lasciati morire. E’ un’ottima occasione per sbarazzarsi di una bocca famelica che, comunque, secondo il Corano, deve essere sfamata. Il libro sacro dei musulmani – raccontano da queste parti – impone ai fedeli di Allah di trattare bene gli schiavi e di non far loro mancare nulla, salvo la libertà.

Weila Ilguilas è il presidente dell’organizzazione Timidria (“solidarietà in lingua tamashek), che lotta contro la schiavitù in Niger : “I padroni – spiega – hanno tutti nomi islamici Mohammed, innanzitutto, Ali, Abdulkadir e così via. Gli schiavi nomi africani. Quando un bimbo nasce in schiavitù è il proprietario del padre che gli dà il nome che, quindi, non può accettare che si chiami come il proprio figlio”.

Timidria – nata nel 1991 e riconosciuta da Antislavery International, con sede a Londra – ha calcolato che in Niger vivano 870 mila schiavi su una popolazione di 11 milioni d’abitanti. Tutte le più grandi tribù la esercitano (i tuareg, i djermà, i poel) tranne gli hausa. La pratica è vietata dalla legge.

L’ultimo di una lunga serie di decreti – tutti per altro il gran parte inapplicati – che puniscono chi se ne serve è stato promulgato il 7 aprile scorso. “Non basta una legge per abolire la schiavitù – aggiunge Weilà -. Occorre creare le condizioni economiche perché gli schiavi possano diventare liberi. Oggi il loro padrone è per loro una protezione: mangiano tre volte al giorno e questo ai loro occhi giustifica maltrattamenti e angherie”.

In teoria uno schiavo potrebbe lasciare la casa in cui vive, salutare, prendere la porta e andarsene. Invece, di fatto, non può farlo. Fuori di lì c’è l’incognita di un mondo sconosciuto e misterioso che, grazie a credenze, superstizioni e tabù, terrorizza. Chi “ha scelto la libertà”, inoltre, viene visto come un traditore perfino dagli stessi ex compagni, tenuti uniti e soggiogati da fortissimi legami psicologici.

“Oggi non si deve pensare che gli schiavi siano tenuti incatenati con ceppi e ferri – chiarisce Weilà -.  Lo schiavismo, piuttosto, è un atteggiamento mentale, congeniale agli interessi dei proprietari. Il governo non fa nulla per affrancarli perché i suoi membri sono i primi a servirsene. Le loro case sono piene di servitori e di famigli che non ricevono alcun salario e debbono solo obbedire agli ordini. Non esiste più il mercato degli schiavi ma il loro commercio è ancora vivo anche se clandestino. Vengono regalati o venduti sottobanco e nella loro vita possono passare da un padrone all’altro. A questi esseri che vivono in uno stato subumano vien fatto credere che Dio li abbia creati solo per servire. Appartengono a una casta dalla quale non si può uscire neppure una volta riacquistata la libertà. Le famiglie dei padroni, gli imijighane, i ricchi, i nobili che vengono prima solo dei marabù,  riconoscono e disprezzano chi appartiene alla classe “ inferiore e negletta” degli schiavi. E’ una forma ignobile di razzismo e per giustificarla si chiama in causa Allah, che, invece, non c’entra proprio nulla. Occorre dire basta a questa ignobile pratica. Non è concepibile che mentre l’uomo va sulla luna, qui ci sia ancora gente costretta alla schiavitù”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @mlberizzi

 Le foto di questo gruppo di schiavi sono di Massimo A Alberizzi. La seconda è il ritratto di Altana Algamis

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maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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