Nostro Servizio Particolare
Cornelia I. Toelgyes
2 maggio2014
Doveva essere una tranquilla giornata di festa questo primo di maggio 2014, invece, alle sei del mattino gli agenti, le forze dell’ordine di Melilla, una delle enclavi spagnole in territorio marocchino, sono state chiamate a far fronte ad un nuovo “assalto” da parte di migranti africani dell’area sub-sahariana. Erano in quattrocento, più o meno.
Dall’inizio dell’anno quasi milleseicento giovani africani sono riusciti a superare la barriera. Il 25 aprile 2014 il governo spagnolo aveva approvato un finanziamento di duemilionicentomila Euro per rinforzare le recinzioni che separano le enclavi (Ceuta e Melilla) dal Marocco. Saranno dotate di nuove tecnologie che impediranno ai migranti di arrampicarsi.
Nessuno è morto durante gli scontri con la polizia, ma vi siete mai chiesto quanti di loro, durante il lungo tragitto che separa la loro terra dal Marocco, saranno deceduti, oppure marciscono in una qualche galera per immigrazione clandestina (o magari per una finta accusa di truffa), in uno dei paesi che hanno dovuto attraversare? Quante madri staranno versando lacrime, forse proprio in questo momento, per quel figlio che non c’è più o del quale non hanno più notizie da tempo?
Mercoledì, 30 aprile 2014, il portavoce delle forze armate sudanesi, a Sawarmi Khaled Saad ha comunicato che nel deserto libico, al confine tra Libia e Sudan, sono state soccorse da un’azione congiunta delle forze armate libiche e sudanesi trecentodiciannove migranti di diverse nazionalità: eritrei, etiopi, sudanesi, pachistani, del Bangladesh; sfinite, esauste, abbandonate dai contrabbandieri di uomini, mentre cercavano di raggiungere il confine libico. Altri nove, di nazionalità sudanese, non ce l’hanno fatta. Morti di sete, di stenti, in mezzo ad un deserto, mentre sognavano un briciolo di libertà. “I sopravvissuti sono stati trasferiti in una città a 500 chilometri a nordovest di Khartoum, la capitale del Sudan, per essere curati e assistiti”, ha aggiunto Saad.
L’africano moderno è istruito, educato, sono giovani che hanno avuto modo di ascoltare le parole di Nelson Mandela. Scappano perché non sono più disposti a lasciarsi schiavizzare dal presidente di turno, da guerre sanguinarie atroci ed inutili. Sognano e desiderano una vita senza troppi stenti, ma soprattutto non sopportano più di essere oppressi, di essere uccisi, di farsi uccidere. Fuggono perché si interrompe il rapporto di fiducia che dovrebbe esistere tra il governo ed il cittadino. In questo caso non resta altro da fare che impacchettare tutto quello che hai in un sacchetto di plastica, sogni compresi, e andartene. Un rifugiato non sceglie, spesso non ha altra scelta.
Il profugo scappa da situazioni difficili, disumane, ma, una volta giunto in un paese libero, inizia una nuova battaglia, in primis quella di non essere ben accetto dal Paese in cui è arrivato. La gente ha paura dei tanti che, secondo molti, “invadono” il continente europeo, l’Italia. Allora ci si può porre una sola domanda: se molti governi europei non gradiscono una società multietnica, la presenza dei profughi, perché non si interviene direttamente nei paesi di provenienza? Dove a tenere lo scettro è un tiranno, un despota? Dove guerre feroci terrorizzano intere popolazioni? Dove la corruzione è l’unica a dettare legge? Ma forse gli interessi economici in gioco sono troppi.
Cornelia Isabel Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
twitter @cotoelgyes
La seconda foto, esclusiva di Africa Express, mostra un gruppo degli emigranti fermati a Aswan.
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