Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 20 aprile 2014
La conferma arriva con un breve messaggio stamattina all’alba: “Ci sono violenti combattimenti nello Unity State intorno alla capitale Bentiu. Altri forti combattimenti si segnalano nel nord dello Stato di Upper Nile”, la cui capitale, Malakal, nelle scorse settimane ha cambiato di mano almeno due volte.
La situazione è drammatica e il Sud Sudan è di nuovo in fiamme. I combattimenti sono scoppiati di nuovo feroci tra l’esercito regolare fedele al presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia dinka, e le truppe leali al vicepresidente, defenestrato nel luglio scorso, Riek Machar Teny Dhurgon, di etnia nuer. In teoria i due contendenti sono cristiani ma il giorno di Pasqua non li induce a parlare di pace. Tutt’altro: rullano invece i tamburi di guerra.
Giovedì scorso il ribelli di Riek hanno catturato Bentiu, capitale dell’Unity State, e le ricche zone petrolifere. A Bor, capitale del Jonglei State, c’è stata la reazione della popolazione locale, dinka, che ha preso d’assalto la base dell’ONU dove ci sono rifugiati almeno 5 mila civili nuer. I morti sono stati almeno una cinquantina. I caschi blu hanno reagito, ma troppo tardi.
Spiega ad Africa ExPress Samuel Mut Gai, colonnello dell’esercito sudsudanese, nuer, amico di Riek Machar: “I dinka hanno attaccato i civili per ammazzarli e i militari indiani del contingente internazionale hanno permesso l’eccidio. Se fosse accaduto al contrario, e cioè che i nuer avessero assalito i dinka, sarebbe accaduto un pandemonio”. Non è proprio così secondo Ayom Wol Dhal, che scrive ad Africa ExPress: “Il gruppo di persone armate che ha assalito il compound dell’ONU era composto da sostenitori del governo. Questo però non vuol dire che il governo sostenga questi gruppi”.
Occorrerebbe a questo punto un’investigazione indipendente per capire se l’assalto alla base ONU e l’omicidio dei dinka sia stato organizzato o se si sia trattato di una dimostrazione spontanea. Non è facile da dimostrare. Come diceva un mio amico, ironicamente, “le manifestazioni spontanee sono le più difficili da organizzare”.
E’ vero comunque, come ha dichiarato alla Voice of America Joe Contreras, l’inviato speciale di Ban Ki Moon in Sud Sudan, che i capi del contingente indiano vista a situazione drammatica, appena è cominciato l’attacco e alcune granate sono state lanciate contro le tende dei rifugiati hanno chiesto e ottenuto dalle truppe governative di venire in fretta al campo per provvedere alla sua sicurezza.
Mentre il bilancio finale dei morti non è ben chiaro (anche se supera 60) e neppure quello feriti (comunque oltre 100) si delinea meglio la dinamica dell’attacco, anche grazie alle dichiarazioni del governatore del Jonglei State, generale John Kong Nyuon.
La protesta è cominciata pacificamente, un gruppo di dimostranti si è presentato prima davanti all’abitazione del governatore e poi, visto che non c’era, si è mosso verso il quartier generale dell’ONU. Volevano presentare una petizione (di cui Africa Express si è riuscita a procurare una copia) per chiedere che i membri del White Army, cioè una milizia nuer creata di recente per combattere a fianco delle forze ribelli, fossero allontanati dal campo UN dove secondo i manifestanti, avrebbero trovato protezione. “Era una manifestazione pacifica – ha dichiarato al quotidiano Sudan Tribune uno degli organizzatori della protesta – di cui abbiamo perso il controllo ed è finita in mano a un gruppo che l’ha trasformata in un attacco violento”.
Il segretario dell’ONU, Ban Ki Moon, e il Consiglio si sicurezza tutto, hanno manifestato una dura indignazione e espresso una severa condanna per l’accaduto: “Ci sono i termini per parlare di crimine di guerra da portare all’attenzione del tribunale internazionale”, hanno commentato.
“La guerra è insensata – ha sottolineato il colonnello Samuel Mut Gai incontrato a Nairobi -. Non è nata come una guerra etnica ma un scontro di potere all’interno dell’SPLA (Sudan People’s Liberation Army, il partito al potere in Sud Sudan, ndr). Il presidente Salva Kiir ha usato come pretesto un tentativo di colpo di Stato organizzato dai nuer contro di lui, ma non è vero. Non c’è stato nessun tentativo di golpe, piuttosto, da parte sua, c’è stata la deliberata volontà di far fuori i nuer che erano alleati nel suo governo”.
Salva nel luglio scorso ha defenestrato il suo vice Riek Machar e tutti i ministri nuer si sono ritirati. Anche alcuni eminenti dinka non hanno condiviso le scelte del presidente, e si sono schierate con i ribelli. Tra gli altri Rebecca Garang, la vedova di John il leader storico del SPLA.
“Il problema del Sud Sudan è la corruzione – racconta il colonnello Samuel Mut Gai -. Salva Kiir ha accentrato il potere su di sé, la sua famiglia e i suoi amici. E anche le royalty del petrolio finiscono nelle loro tasche. Riek ha protestato. Cercava di raddrizzare la situazione ed è stato cacciato dal governo. Ma quando ha annunciato di volersi candidare alle presidenziali del 2015 ha provocato la reazione violenta di Salva che si è inventato un tentativo di colpo di stato da parte dei nuer e quindi il suo controgope. Così è cominciata la guerra fratricida”.
L’ufficiale, originario proprio di Bentiu, non intende rientrare in Sud Sudan: “Ho combattuto trent’anni per ottenere l’indipendenza non posso combattere contro i miei fratelli è un’assurdità”.
Di guerre apparentemente insensate ce ne sono tante in Africa. Ma insensate sono solo per la gente che muore o che combatte senza sapere per chi e perché. Parole come democrazia, rispetto dei diritti umani, progresso si sprecano. Forse però sarebbe meglio parlare di interessi economici, di sfruttamento delle risorse, di appetiti inconfessabili. Una descrizione che vale anche per il Sud Sudan.
Massimo A. Alberizzi
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