Speciale per Africa ExPress
Giovanni Porzio
8 aprile 2014
Settantuno, centoventidue: il numero dei giornalisti uccisi sul campo nel 2013 e nel 2012. Ottocentodieci nell’ultimo decennio. Molti li conoscevo. Di alcuni, troppi, ero stato amico e compagno di viaggio. Come lo ero di Ilaria.
Su quanto accadde il 20 marzo 1994 non mi voglio dilungare: la dinamica e le circostanze dell’omicidio di Ilaria e Miran sono state chiarite dalle innumerevoli inchieste della magistratura e delle commissioni parlamentari alle quali ho partecipato come testimone dei fatti insieme a Gabriella Simoni.
Negli anni successivi congetture e ipotesi complottistiche prive di sostanziali indizi probatori si sono moltiplicati, spaziando dal commercio di armi alla “mala cooperazione” fino al traffico di rifiuti tossici. Al punto che ormai gran parte dell’opinione pubblica italiana, anche la meno sprovveduta, è fermamente convinta che Ilaria e Miran siano stati eliminati perché a Bosaso avevano scoperto qualcosa di scottante.
Un analogo tentativo di distorsione mediatica si è verificato anche nel caso di Maria Grazia Cutuli quando, il giorno successivo alla strage nelle gole afghane di Sorobi, alcuni quotidiani (naturalmente italiani) avanzarono l’ipotesi che Maria Grazia avesse scoperto un fantomatico deposito di armi chimiche talibane…
Concordo con quanto scrive Massimo Alberizzi nel suo articolo. Le tesi precostituite, le indagini malamente condotte da magistrati incompetenti (ne ricordo uno che mi interrogava a Roma: pensava che Gibuti fosse un’isola, una colonia francese..) e gli articoli scritti da colleghi che in Somalia non avevano mai messo piede hanno reso più difficile l’accertamento della verità. Che forse è molto più semplice e amara.
Con gli inquirenti mi sono sempre attenuto ai fatti: come del resto avrebbe voluto Ilaria.
Massimo ha descritto il clima ostile agli italiani di quei giorni a Mogadiscio e l’elevato rischio di sequestri. Posso aggiungere, come ho riferito per anni alla magistratura, alcuni dettagli di non poco conto.
Io, Gabriella, Marina Rini e Romolo Paradisi (operatore Rai) siamo stati i primi e i soli ad analizzare minuziosamente, la sera stessa del 20 marzo a bordo della Nave Garibaldi, TUTTI i taccuini di Ilaria e a visionare le cassette girate da Miran, proprio per cercare eventuali indizi: non ne abbiamo riscontrato alcuno.
Dalla testimonianza di Valentino Casamenti, il cooperante italiano che ha ospitato nella sua abitazione di Bosaso Ilaria e Miran, accompagnandoli con la sua auto in tutti i loro spostamenti, si evince che Ilaria e Miran non stavano indagando sul commercio di armi e tanto meno sul traffico di rifiuti tossici: argomenti di cui avremmo dovuto peraltro trovare traccia nei taccuini o nel girato di Miran.
Ilaria e Miran – questa è una circostanza sempre sottovalutata – giravano senza scorta: il risicato budget di cui disponevano (e a questo proposito qualche domanda al Tg3 andrebbe fatta, nevvero?) non lo consentiva. A quell’epoca le scorte vere (4-5 uomini armati e una “tecnica” con mitragliatrice al seguito) costavano 500 dollari al giorno: il denaro che io e Gabriella trovammo il 20 marzo nelle camere dell’Hotel Sahafi era appena sufficiente a saldare il conto dell’albergo. Pagammo noi il dovuto all’autista Ali.
Al momento dell’aggressione la “scorta” di Ilaria e Miran, un ragazzino di 17 anni con un AK-47, preso dal panico, fece l’unica cosa che non doveva fare: sparò sugli assalitori ferendone due alle gambe e provocando la violenta reazione degli altri 5 membri del commando.
La tesi dell’“esecuzione”, degli spari a distanza ravvicinata, appare improbabile. La fiancata del pick-up Toyota su cui viaggiavano i due colleghi era crivellata di proiettili. Miran era stato raggiunto da almeno tre colpi. Ilaria pareva illesa: solo quando la presi in braccio per trasportarla su un’altra auto mi resi conto che aveva un piccolo foro d’entrata sulla nuca, a stanto visibile tra i capelli biondi. Pensai subito a un proiettile di rimbalzo: un tiro in testa a distanza ravvicinata, come quello che mesi prima aveva aperto una voragine nella gamba del fonico kenyota di Gabriella, avrebbe avuto effetti devastanti.
Ancora un paio di cose.
Traffico di armi: non c’era niente da scoprire. Ogni milizia controllava uno scalo marittimo dove le armi venivano scaricate in pieno giorno e il generale Rossi, comandante del primo contingente italiano in Somalia, teneva appesa nella sua tenda una carta con le località segnate a pennarello rosso. Si potevano visitare. E armi d’ogni tipo erano in vendita al mercato di Bakara. È stato (da me) appurato che l’intervista-scoop al marinaio somalo Mohamed Samatar, il quale sosteneva di avere visto armi e munizioni a bordo della nave 21 Ottobre (nave frigorifera donata alla Somalia dalla Cooperazione italiana) nel porto libico di Tripoli, era una bufala: il Samatar, come risulta da un verbale della Capitaneria di porto di Livorno, era stato sbarcato per motivi disciplinari mesi prima dell’unico viaggio della 21 Ottobre in Libia. Ciò nonostante la sua “testimonianza” ha continuato per anni ad essere ritenuta valida ai fini delle indagini.
Traffico di rifiuti: c’è tutto da scoprire, ma – verosimilmente – non in Somalia. È noto a chiunque abbia svolto indagini (da Greenpeace alle Nazioni Unite, e persino alla magistratura italiana) che il grosso delle scorie tossiche viene gettato in mare (i fusti rinvenuti sulle spiagge della Somalia e del Kenya dopo lo tsunami…) o smaltiti in paesi più attrezzati (il caso della Nigeria). Nessun “imprenditore” del ramo si sobbarcherebbe i costi dello sbarco, del trasporto e dell’interramento in un paese come la Somalia. E in ogni caso tutti, in Somalia, ne sarebbero a conoscenza.
Mi fermo qui, Ilaria. Che tristezza…Non scriverò più una riga su di te. RIP!
Giovanni Porzio
porzio.giovanni@gmail.com
Nelle foto: Ilaria al microfono, si intravede la testa del cameraman Alberto Calvi; gruppo di giornalisti davatio al ristorante Tamarind di Nairobi: Ilaria è a destra, Massimo Alberizzi a sinistra vicino a lui Alberto Calvi e poi Ingrid Formanek, producer della CNN; Ilaira e il generale Carmine Fiore, comandante della missione italiana in Somalia (la foto è di Raffaele Ciriello); l’autore dell’articolo, Giovanni Porzio; Ali l’autista che guidava l’auto su cui sono stati uccisi Ilaria e Miran