Massimo A. Alberizzi
5 gennaio 2014
Sono cominciati ad Addis Abeba i colloqui di pace faccia a faccia tra i rappresentanti delle due fazioni in guerra in Sud Sudan, quella del presidente Salva Kiir e quella del ribelle ex vicepresidente licenziato in luglio, Riek Machar. Colloqui che stanno affrontando problemi tutto sommato secondari anche se importanti, come la richiesta rivolta al governo dai rivoltosi di liberare i prigionieri politici.
Sul terreno si continua a combattere. La battaglia infuria per il controllo delle capitali di due Stati ora in mano ai rivoltosi: Bor, città strategica a 200 chilometri da Juba, nel Jonglei State, e Bentiu, centro petrolifero dell’Unity State. Malakal, capitale dell’Upper Nile è una città fantasma: tre quarti degli abitanti sono scappati e le loro case e i loro negozi sono stati saccheggiati.
I governativi hanno circondato Bor e avanzano verso il centro della città. Una delle colonne è caduta in un’imboscata dei ribelli che hanno ucciso un generale lealista. Bor dall’inizio dello ostilità, il 15 dicembre, è passata di mano più volte. Gran parte della popolazione è fuggita. Il resto ha trovato protezione all’interno del quartier generale dei caschi blu.
Secondo voci non confermate l’esercito ribelle di Riek Machar sta marciano su Juba. Se la capitale dovesse cadere, per il presidente Salva Kiir sarebbe la fine.
Peraltro si fa un grande errore se si considera la guerra civile in Sud Sudan come un conflitto etnico, tra i dinka, la tribù del presidente, e i nuer del vicepresidente defenestrato. Se è vero che i due contendenti hanno fatto appello al proprio gruppo etnico, non è vero che tutti abbiano risposto positivamente. Riek Machar ha avuto il sostegno politico di numerosi Dinka influenti, tra cui quello di Rebecca Nyandeng, la vedova di John Garang il padre dell’indipendenza del Sud Sudan morto in un incidente d’elicottero nel 2005.
Massimo A. Alberizzi
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