Morto Nelson Mandela. Dopo 27 anni di carcere perdonò i suoi aguzzini per costruire un Sudafrica democratico

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Swakopmund (Namibia), 5 dicembre 2013
Un eroe, un mito, una leggenda. Gli ultimi anni li ha vissuti così Nelson Rolihlahla Mandela, riconosciuto come uno degli uomini più importanti – ma soprattutto più “umani” – del secolo scorso. Chi altri partendo da zero, massacrato psicologicamente e fisicamente sin da piccolo dopo aver passato 27 anni in carcere ed essere arrivato ai vertici del suo Paese sarebbe riuscito a perdonare i suoi aguzzini? Esempi di questo genere esistono solo in letteratura.

Mandela ha creduto nella democrazia fin da quando ha deciso di lottare contro la segregazione razziale in Sudafrica. Non si è scostato di un millimetro dal cammino intrapreso. Ha saputo controllare i nervi quando è stato provocato da chi si aspettava una reazione. Non ha mai risposto al razzismo contro i neri con il razzismo contro i bianchi. “Non mi importa il colore degli oppressi – usava ripetere ammonendo i suoi compagni -. Dobbiamo difendere qualunque essere umano sia sfruttato o derelitto”.

Non tutti i bianchi del Sudafrica l’hanno odiato e disprezzato. Soprattutto la parte di discendenza britannica del Paese ha imparato ad amarlo e apprezzarlo. Nonostante quello che si crede, l’Africa National Congress, il suo partito, creato per lottare contro l’apartheid, non era formato solo da neri. Lui voleva dentro anche i bianchi e questo, a suo tempo, gli aveva provocato parecchie antipatie. La massa degli oppressi non poteva ammettere che anche chi non era oppresso potesse lottare contro l’oppressione.

Madiba, lo chiamavano affettuosamente i sudafricani, un nome mediato dal suo clan, uno dei più importanti della tribù xhosa. Lui, nato il 18 luglio 1918 era uno dei figli prediletti della famiglia reale Thembu.

La sua vita è stata tutta informata da sentimenti di conciliazione e riconciliazione. Il primo giorno da presidente ha voluto conoscere il suo servizio di sicurezza. Erano tutti bianchi. Credevano che lui li avrebbe cacciati in malo modo. Invece no: li ha convocati: “Voi siete dei professionisti e difendete gli interessi del vostro Paese e il suo presidente, chiunque esso sia. Sono certo che ora difenderete me con la stessa dedizione e professionalità con cui avete difeso il mio predecessore”. Anche in quel caso i suoi, specialmente quelli che gli erano stati vicini fino a qual momento, lo guardarono attoniti, quasi che fosse un marziano.

Già, un uomo diverso che prendeva decisioni non ortodosse e non previste. Come quando, pochi giorni prima della sua ascesa al potere, chiamò tutti i dirigenti dell’ANC, molti dei quali già pregustavano la vendetta. “Mettetevi in testa una cosa – ammonì anche un po’ sgarbatamente – non c’è posto per le rivalse, ripicche, rappresaglie. Se pensate di prendere il posto di questo o quel dirigente bianco avete sbagliato. Non voglio che il Sudafrica crolli, non voglio che diventi come gli altri Paesi africani, E ricordate. Non c’è posto per la corruzione. Dobbiamo tutti costruire questo Paese, perché è il nostro Paese, dei neri, dei bianchi, degli indiani e tutti quelli che ci vivono”.

Di nemici se ne fece molti, anche nel suo partito, sebbene nessuno osasse criticare più di tanto un’icona vivente come lui, che aveva saputo coniugare il prestigioso premio Nobel, con gli insegnamenti sulla resistenza nonviolenta del Mahatma Gandhi (che politicamente si era formato proprio in Sudafrica), la militanza armata riuscendo a fondere gli ideali dell’uguaglianza sociale predicati dal socialismo con lo spirito indipendente e sciolto del liberalismo per creare una società profondamente aperta.

Alcune sue affermazioni sono sorprendenti soprattutto se collocate in un contesto come quello africano dove i presidenti si trasformano facilmente in sovrani assoluti: “Un stampa critica, indipendente e investigativa – aveva dichiarato durante un discorso nel 1994 all’International Press Institute – è la linfa vitale di ogni democrazia. La stampa deve essere libera dall’ingerenza dello Stato. Deve avere la forza economica per resistere alle lusinghe dei governo. Deve avere una sufficiente indipendenza da interessi precostituiti in modo tale da essere audace e poter indagare, senza paura o favoritismi. Deve godere della protezione della Costituzione, in modo che possa proteggere i nostri diritti come cittadini”.

Che differenza dagli altri leader africani che hanno cominciato la loro carriera politica come combattenti per la libertà e l’hanno conclusa come sanguinari dittatori! Un esempio per tutti: il suo compagno di tante battaglie, il tiranno dello Zimbabwe, Robert Mugabe. Grande amico ai tempi della lotta contro l’oppressione ma disprezzato come oppressore dopo il tradimento degli ideali comuni. Lui, invece, da rivoluzionario si è trasformato in statista.

La figura di Mandela smentisce clamorosamente tutti quelli che, con una certa dose di razzismo, sostengono che l’Africa è destinata a morire travolta dalla corruzione dei suoi dirigenti e dalla predisposizione a corrompere dei suoi “salvatori” esterni, che non hanno altra intenzione se non quella di impadronirsi delle sue ricchezze naturali. Mandela ha saputo imporre nel “Paese arcobaleno” la pace, la crescita e la democrazia tre elementi, in Africa, spesso incompatibili tra loro.

Massimo A. Alberizzi
twitter @malberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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