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Eritrea violenta: l’inferno di Elsa, Lula & le altre a Sawa, il campo degli stupri

Dalla Nostra Inviata Special
m. r.
Asmara, 26 settembre 2002

E’ da poco passata la mezzanotte. Svegliata dai colpi prepotenti sferrati con il calcio del fucile contro la porta di casa Lula, terrorizzata, schizza all’improvviso dal letto. La diroccata palazzina di due piani nei pressi dell’aeroporto di Asmara è circondata dai soldati. La ragazza infila velocemente un pantalone e un giubbotto, e prima di aprire la porta volge un rapido sguardo verso gli occhi disperati di sua madre. L’ufficiale sull’uscio ringhia qualche frase verso le donne. Lula il menqesaqesi, il tesserino militare, non ce l’ha.

Un uomo l’afferra con violenza per il braccio e la trascina su un camion, già carico di ragazzi e ragazze impauriti. In pochi secondi il mezzo sparisce nell’oscurità. Destinazione Sawa, un durissimo e inavvicinabile campo militare di addestramento situato nell’infuocato deserto ai confini con il Sudan.

Le giovani eritree lo chiamano più semplicemente, sussurrandoti nell’orecchio, il “campo degli stupri”. Nell’accampamento ci passano tutti, prima o poi. È la tappa obbligatoria degli eritrei tra i 17 e i 40 anni, ma spesso ci finiscono ragazzine e ragazzini di 15 e 16 anni. Le cifre sono agghiaccianti: si calcola che oltre 200 mila eritrei, la metà donne, siano stati reclutati forzatamente. Quando Lula entra a Sawa è il gennaio del 2001. Ha da poco compiuto 17 anni, ha lasciato la scuola nel 1998 per occuparsi della sorella minore.

Sua madre, abbandonata dal marito, è malata di cuore. Dei due fratelli maggiori non si hanno più notizie da oltre due anni. Come altri 19 mila giovani saranno morti durante l’insensata guerra contro l’Etiopia scatenata nel 1998. Per Lula i sei mesi trascorsi nel maledetto accampamento sono ancora un incubo. Racconta: “All’inizio è stata una tortura. Ho sopportato in silenzio lunghe marce a piedi nel deserto, tra i ragni e i serpenti sotto un sole accecante che ti spezza le gambe. Volevo dimostrare ai “capi” che sono una brava patriota. La sofferenza è cominciata quattro mesi dopo, quando ero troppo stanca per ribellarmi. Gli uomini, al tramonto, entravano prepotentemente nella tenda e sceglievano una di noi per passare la notte. Si trattava di ufficiali, anche sposati, che consideravano normale portarsi a letto ogni sera una soldatessa diversa. Sono rimasta quasi subito incinta e mi hanno immediatamente rispedita a casa”.

La drammatica esperienza di Sawa ha significato per la giovane mamma l’abbandono di ogni speranza nel futuro. “La propaganda di governo promette posti di lavoro a 150 nakfa al mese, circa 7,5 euro al cambio nero, ai giovani che tornano dal servizio militare obbligatorio, ma non è vero. Ci impediscono di studiare e ci rubano i sogni. Quando finirò di allattare Stella, senza un marito, non so come la sfamerò. Ma una cosa è certa: quando sarà il suo turno la nasconderò. La mia bambina non andrà mai a Sawa”. Alcune suore, in segreto, gestiscono una clinica per ex soldatesse. Molte famiglie non riaccolgono più in casa le ragazze madri o quelle che riescono a fuggire da Sawa. Le religiose diventano così le uniche confidenti di giovani donne traumatizzate o in procinto di partorire figli concepiti nei campi militari.

“La situazione è ormai incontrollabile”, sostiene una suo-ra. “Moltissime donne sposano perfetti estranei per evitare i “giffa”, i rastrellamenti forzati. Altre non reggono e si suicidano. Da quando il governo ha deciso di non reclutare più donne con figli, in clinica abbiamo fatto il pieno di ragazze che aspettano bambini da sconosciuti. Poi tornano disperate quando si rendono conto che senza tesserino militare non avranno mai un lavoro. L’avvenire di questo Paese è nero”.

Elsa, invece, i suoi 18 mesi di servizio militare se li è fatti tutti. Compresi 12 terribili vicino ad Assab, nell’inferno del deserto dancalo. Mostra foto sbiadite di Sawa, durante l’addestramento, lei fiera nella mimetica, è sorridente. “Era il 1998, avevo 20 anni. Dopo sei mesi ho capito che quei soldati mi chiedevano un “servizio” diverso. Io e la mia compagna di 17 anni siamo finite in una casa con militari uomini”, sussurra Elsa. “In pratica siamo diventate le loro serve. Dodici ore al giorno di lavoro e stuprate la notte: un tormento insopportabile. A me è toccato un uomo non sposato, all’inizio ero contenta ma poi quando sono rimasta incinta mi ha rispedito ad Asmara. Per fortuna è successo due mesi prima dello scoppio della guerra, altrimenti sarei morta al fronte. L’ufficiale mi scrisse una lettera: per dirmi che il figlio non era suo. So che si è sposato con un’altra. Molte mie compagne si sono ammalate di Aids. Sappiamo che esiste questa malattia, ma io non so bene come si prende”.

La corsa del virus in Eritrea è allarmante: nel 1988 appena un caso, nel 2001 oltre 13.000 ammalati, 3.000 in più ogni anno. La guerra tra Eritrea ed Etiopia è finita da un pezzo. 3.500 caschi blu delle Nazioni Unite, tra cui 150 italiani, sorvegliano il cessate il fuoco. Il presidente Isaias Afeworki aveva promesso solennemente di smobilitare circa 150 mi-la soldati e, con i fondi della Banca Mondiale, favorire le attività professionali e di studio. Del progetto, oggi, nessuno ne parla più. Ogni notte agli angoli delle strade soldati ragazzini, in tuta mimetica e sandali, intimano ai loro coetanei di esibire l’odiato mengesagesi. Chi ne è sprovvisto finisce direttamente a Sawa. Vietato parlare di reclutamenti forzati. Il governo preferisce chiamarli “programmi di lavoro estivi”, o “maetot”, servizio di leva obbligatorio. Da giugno di quest’anno i rastrellamenti si sono intensificati, fino a raggiungere i tremila nella sola notte del 9 luglio. La sera le strade di Asmara sono quasi deserte. Gli unici giovani che frequentano bar e ristoranti sono i “beles”, i fichi d’india, come vengono chiamati affettuosamente da queste parti gli emigrati che tornano in Eritrea per trascorrere le vacanze estive. Per sfuggire ai reclutamenti forzati le ragazze dormono ogni sera in luoghi diversi, oppure, come le cameriere degli alberghi, si fanno rinchiudere nelle cantine già attrezzate di materassi e acqua.

Ma spesso non basta. Gli ufficiali dell’esercito si presentano direttamente al datore di lavoro per esigere la consegna del personale. I rastrellamenti hanno provocato la paralisi dell’economia e, di conseguenza, molte imprese hanno chiuso i battenti. Se gocciola un rubinetto non ci sono idraulici per ripararlo, la terra coltivabile è trascurata perché non ci sono braccia giovani e forti, il ministero dell’Educazione ha dovuto assumere 300 insegnanti indiani, perché quelli eritrei sono spariti al fronte o spediti a Sawa. Il presidente Isaias, che non ha mai promulgato la costituzione del 1997, recentemente ha fatto arrestare – in una località segreta – 15 dei suoi più stretti e illuminati collaboratori. Avevano “osato” scrivere una lettera  dove si richiedevano le riforme democratiche che tutti i cittadini aspettano da tempo.

La stampa libera è stata soppressa e i giornalisti incarcerati. 400 studenti universitari che si oppongono ai “campi di lavoro estivi” sono stati spediti a Wia, un lager vicino al porto di Massaua dove le temperature superano spesso 40 gradi, con il compito di ammucchiare pietre. Ad altri 1.700 è stato impedito di iscriversi al nuovo anno accademico, perché bloccati in un interminabile servizio militare obbligatorio. Parlare apertamente della situazione politica e sociale del Paese è impossibile.

Come negli anni ’70 e ’80 è ricominciato l’esodo. Moltissime donne scappano: in Etiopia, in Sudan o via mare. Chi può pagare, viene trasportata sulla costa e sistemata su una piccola imbarcazione nel bel mezzo del Mar Rosso, in attesa che arrivi una nave più grande in rotta verso l’Europa. Altre cadono vittime di truffatori senza scrupoli. In Eritrea i legami con l’Italia sono ancora molto forti. Tantissimi eritrei, anche giovani, parlano perfettamente la nostra lingua. Ad Asmara c’è la più importante scuola italiana all’estero e l’architettura anni ’20 della città, come anche l’atmosfera che si respira, è quella di una tranquilla e sonnacchiosa cittadina del nostro sud.

Una sera, in un ristorante, davanti a un fumante piatto di tagliatelle al ragù, un eritreo sulla cinquantina accetta di parlare di sua figlia, ma si capisce che lo fa con imbarazzo. “Ha vent’anni. Ha finito la scuola italia-na due anni fa, anche sua nonna – mia madre – era italiana. Dovrebbe partire per Sawa, ma le ho procurato dei documenti falsi dove risulta che è ancora troppo giovane. Partire per l’estero? Impossibile: senza tesserino militare, niente passaporto. Il governo ha perfino annullato tutte le borse di studio, perché molti studenti non tornavano più. La sera non esce e tutta la famiglia la sta nascondendo per proteggerla dall’aberrante campo militare. Ma in questo Paese di poco più di tre milioni e mezzo di abitanti, non ci sono più tanti posti per nascondersi”.

m.r. 

Questo articolo è stato scritto nel 2002 ma è ancora valido
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maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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