Massimo A. Alberizzi
4 novembre 2013
All’ambasciata italiana di Addis Abeba sono il giacenza in questo momento più o meno 700 richieste di visto. Si tratta per lo più di domande avanzate da cittadini eritrei che – in fuga dall’inferno del loro Paese – vorrebbero venire in Europa. Pochi, pochissimi, avranno il visto. Le consegne che arrivano da Roma sono ferree. Non si passa. I più informati sanno già quello che accadrà: la maggior parte di questi profughi scapperà verso la Libia e poi cercherà di imbarcarsi da qualche porto per attraversare il Mediterraneo e arrivare in Italia. E se ci sarà un’altra tragedia qualcuno fingerà ancora di piangere.
Le autorità italiane non hanno ben capito che la gente in fuga dall’Eritrea non scappa perché cerca un lavoro migliore, in un Paese, l’Italia, che promette divertimenti e qualità della vita simile a quella che mostrano i film in televisione. L’Eritrea non è l’Albania. No; i giovani eritrei se ne vanno perché la loro patria è diventata invivibile. Lì hanno la certezza di finire in un duro campo militare, Sawa, dove le ragazze vengono spesso violentate e devono servire i comandati militari come schiave. A Sawa si sa quando si entra, ma non quando (e se) si esce.
Ma non che solo il campo militare. Da qualche anno il Warsai Ykalo, un programma di lavori forzati dei giovani, garantisce che il serivizio militare, di fatto, continui all’infinito.
Il paradiso Eritrea era stato promesso prima della guerra di liberazione durata trent’anni e finita nel 1991. Il Fronte Popolare di Liberazione e il suo leader Isaias Afeworky hanno tradito lo spirito di quella rivoluzione. Hanno tradito non solo il popolo eritreo – che aveva creduto a quelle promesse – ma anche le decine di simpatizzanti, giornalisti, operatori di organizzazioni umanitarie o difensori dei diritti umani, caduti nella trappola di un imbonitore la cui follia ha distrutto una nazione.
La speranza che le ultime tragedie del mare abbiano scosso le coscienze e il sacrificio di chi è morto in cerca della liberà possa giovare a chi rimane (e/o a chi deve ancora scappare) è grande. Finalmente i governanti europei stanno realizzando che le politica dei respingimenti non funziona e giova solo al regine. Ed è la prima volta, da anni, che i leader del mondo si stanno finalmente rendendo conto di chi governa l’ex colonia italiana.
Ed è forse per questo che il dittatore Isaias Afeworki si sente circondato e insicuro. Ma non solo: Isaias ricorda bene cos’è accaduto il 21 gennaio di quest’anno: un gruppo di militari con carri armati ha assalito il ministero dell’Informazione e ha chiesto che fosse applicata la Costituzione e fossero rilasciati tutti i prigionieri politici. Si sono arresi e sono finiti tutti in carcere. Ma tra i militari serpeggia il malcontento: oggi Isaias teme un’insurrezione o un colpo di Stato. In quegli stessi giorni a Londra e Tel Aviv giovani eritrei esuli, presero d’assalto le ambasciate del loro Paese.
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Non a caso da qualche tempo il dittatore ha cambiato tutta la sua guardia personale, prima affidata a uomini fidatissimi della sua cerchia di parenti. Ora di loro non si fida più. Li ha sostituiti con più affidabili miliziani etiopici del Tigray People’s Democratic Movement (TPDM), un movimento che ha creato a bella posta e ha scatenato contro il governo di Addis Ababa.
Gente mandata in strada a bloccare i ragazzi e per chieder loro di esibire la tessera militare, pena se non ce l’hanno, l’arresto e la galera. “Tessera”, appunto come, mediato dall’italiano, si dice in tigrigna, la lingua eritrea, e non la “mewasawesi” la parola tigrina che indica la stessa cosa. Le due lingue, tigrigna e tigrina, sono quasi uguali ma è stato proprio per le piccole differenze – appunto la tessera chiesta con la parola non adatta – che i mercenari assoldati da Isaias sono stati riconosciuti.
L’isolamento dell’Eritrea si fa ancora più consistente dopo che la Lufthansa, dal 26 ottobre, ha sospeso i voli su Asmara. L’iperinflazione del nafka, aveva indotto la compagnia tedesca a chiedere la possibilità di far pagare i biglietti in dollari. Il governo ha risposto negativamente. E quindi la linea aerea ha chiuso, non senza prima essersi rifiutata di trasportare in patria i corpi dei profughi annegati nelle acque di Lampedusa.
Dal 22 novembre sospenderà i voli anche l’Eritrean Airlines. Gli aerei sono vecchi, hanno necessità di continua manutenzione, e poi il signore pachistano cui era stata appaltata la compagnia è scappato con la cassa. Grave mancanza di riguardo per un dittatore dal pugno di ferro che non tollera sgarbi.
L’Unione Africana aveva dichiarato il 3 novembre giornata di lutto per i morti di Lampedusa. E’ stata celebrata in tutto il continente, anche in Mauritania come ha scritto Carla Leone su questo sito, ma non in Eritrea.
Le tragedie di Lampedusa e di Malta non sono che la punta di un iceberg. La gente di quella che era la nostra ex colonia prediletta, il Paese prima della seconda guerra mondiale, più industrializzato di tutto il continente, secondo solo al Sudafrica, sta morendo. Le sue galere sono piene di intellettuali, studenti, giornalisti, ex eroi della guerra di liberazione, oltre che naturalmente di cittadini qualunque.
Fino ad oggi tutti gli appelli ai leader mondiali perché guardassero lo scempio, sono rimasti inascoltati. Le classifiche mondiali mettono l’Eritrea a pari merito della Corea del Nord tra i Paesi più repressivi. L’uomo che aveva promesso libertà e prosperità si è trasformato in feroce tiranno finora tra l’ indifferenza di tutto il mondo. Un muro di disinteresse che, forse, i sacrifici di quanti hanno perso la vita a Lampedusa stanno finalmente squarciando.
Massimo A. Alberizzi
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