Massimo A. Alberizzi
10 novembre 2013
Roberto Berardi imprenditore italiano, 48 anni, da gennaio è rinchiuso in una galera della Guinea Equatoriale, uno dei Paesi più repressivi del mondo, dove, circondato da assassini, ladri e banditi di ogni genere, langue in isolamento. Nessuno può andarlo a trovare, neppure i diplomatici italiani. La sua colpa? Avere cercato di capire come mai dalla società edile, che aveva costituito assieme al vicepresidente e figlio del presidente del Paese, era sparito del denaro. Da vittima di una malversazione è diventato, per la corrotta giustizia equatoguineana, carnefice. Ora Berardi, rinchiuso in una galera lurida e raccapricciante, sta vivendo una storia terribile.
Non basta tutta la fantasia per descrivere la sua incredibile vicenda: la realtà supera le più sfrenata fantasia. Inutile dire che i giornalisti sono banditi dalla Guinea Equatoriale. Per noi è impossibile ottenere il visto. Il regime, corrotto fino al midollo e sanguinario, deve mantenere i suoi segreti. E poi, cosa succederebbe se l’opinione pubblica venisse a sapere che la compagnia petrolifera da cui compra la benzina ogni giorno va a braccetto e copre la spietata dittatura equatoguineana? Solo i reporter cinesi sono ammessi, ma sappiamo come la libertà di stampa in Cina non esista. E nemmeno l’opinione pubblica.
Teodoro Obiang, il dittatore della Guinea Equatoriale, rischia di essere deferito alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’Umanità. Un gruppo di avvocati ha costituito un comitato per chiedere all’ONU di considerare la corruzione proprio come un delitto contro l’umanità
Siamo nel 2011 e sembra un affare come un altro quello offerto all’imprenditore italiano Roberto Berardi: un appalto per costruire edifici civili nella Guinea Equatoriale. Berardi ha una certa esperienza della regione per aver lavorato in Costa D’Avorio e in Camerun e quando scopre che suo partner nella società che si accinge a costituire nel Paese sarà nientemeno che Teodorin, il figlio prediletto del presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasongo, e vicepresidente, si sente lusingato e in una botte di ferro. Accetta così di entrare nell’affare.
Berardi non sa che Teodoro, al potere dal 1979, è un sanguinario dittatore, il primo della classifica africana dei tiranni, assieme al suo omologo che “regna” con in pugno di ferro sull’Eritrea, Isaias Afeworki. Teodoro Obiang si arroga il diritto di vita e di morte sui suoi sudditi. Infatti qualcuno alla radio nazionale ha spiegato che lui può ammazzare chiunque, perché tanto non può andare all’inferno. La Guinea Equatoriale (700 mila abitanti) è un Paese ricchissimo: le royalty sul petrolio sono enormi, peccato che finiscano in poche tasche. Come sempre in questi casi, il despota e suo figlio confondono il proprio conto in banca con quello dello Stato.
La gente potrebbe vivere a livello scandinavo, almeno a dar retta alle statistiche che, come al solito, non rendono giustizia e restano incomprensibili. Il reddito pro capite e poco meno di 25 mila dollari l’anno. Peccato che la gente viva con meno di un dollaro al giorno e la metà della popolazione non abbia accesso all’acqua potabile.
In Guinea Equatoriale di ricchissima c’è solo una cosa: la famiglia (allargata) del presidente quella cioè che saccheggia le risorse minerarie. Ha la benevolenza delle compagnie petrolifere che ottengono lucrose concessioni in cambio di altrettanto lucrose tangenti, come accusano organizzazioni non governative che si occupano di lotta alla corruzione.
Il vecchio Teodoro, che è nato nel 1942 e ha studiato all’accademia spagnola di Saragozza sotto la dittatura di Francisco Franco, lascia mano libera al figlio, Teodoro anche lui, ma soprannominato Teodorin, un playboy straricco e capriccioso più avvezzo alla bella vita che agli affari della politica e delle tangenti.
Berardi non sa la storia della Guinea Equatoriale, di Teodoro e di Teodorin. Così, come già detto, quando questo gli propone un affare, di entrare cioè in società con lui, vicepresidente dai grandi poteri, accetta. I due assieme fondano la società di costruzioni Eloba: 60 per cento Teodorin, 40 Berardi.
Teodorin ama l’Italia e le cose italiane. E per questo possiede una delle 30 Bugatti esistenti al mondo, otto Ferrari, una Laborghini e una Maserati. Oltre, naturalmente a numerose Bentley, Rolls Royce, Mercedes e Aston Martin. Riconosciuto come gran playboy per far colpo sulla cantante rap Eve compra al volo uno yacht da 380 mila dollari, una cifra che supera di ben tre volte il budget destinato all’educazione nel suo Paese.
Possiede un bella casa a Malibu, in California, pagata 35 milioni di dollari in contanti, e compra tutti i memorabilia di Michel Jackson, compreso un guanto bianco tempestato di diamanti dal valore di 350 mila dollari. Possiede un aereo personale, una flotta di panfili, un appartamento nell’esclusiva avenue Foch a Parigi. Impossibile fare un elenco delle sua bravate. Ecco un esempio: un weekend in Sudafrica costato 100 mila euro in caviale e champagne.
I giudici americani e francesi si sono domandati come potesse comprare tutto ciò con il suo stipendio di 81 mila dollari all’anno da ministro delle foreste e vicepresidente nel suo Paese e hanno aperto un’inchiesta che ha risposto alla domanda: attraverso estorsioni e corruzione legate alle concessioni di gas e petrolio nel suo Paese. Le sue auto sono state sequestrate dalla giustizia francese e messe all’asta.
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Berardi non sa nulla di ciò e casca nella trappola, dove tra l’altro sono cascati altri imprenditori occidentali. Mentre Teodorin compra il guanto di Michel Jackson, dalla cassa della Eloba scompare il denaro che servirebbe per acquistarlo. L’imprenditore chiede spiegazioni. Gli viene mandata a casa la polizia per arrestarlo. Protesta e chiede aiuto, ma l’aiuto gli viene negato. Perfino i diplomatici italiani non ottengono i visti per andare nel Paese. Certamente non possiamo mandare un contingente di parà per liberarlo, ma forse chiedere e ottenere che esca fuori da quella putrida galera dovrebbe essere un obbligo per la nostra diplomazia.
A meno che non sia meglio affidare il dossier all’ENI, che in Guinea Equatoriale, terzo produttore di petrolio nell’Africa sub sahariana, ha ottime entrature ottenute, se non vado errato, ma come è facile immaginare, con sistemi non del tutto confessabili. Eni o Farnesina (o entrambi) è lo stesso, ma si scelga in fretta Roberto Berardi rischia di non uscire vivo da quell’inferno.
Massimo A. Alberizzi
Massimo.alberizzi@gmail.com
Twitter @malberizzi
Nelle foto dall’alto: Roberto Berardi prima dell’arresto, la mappa della Guinea Equatoriale, il panfilo da 380 milioni di dollari, Teodorin con una sua girl friend, la villa di Malibu e il video girato quando hanno sequestrato la collezione di auto da sogno
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