Massimo A. Alberizzi
NAIROBI, 28 settembre 2013
In questi giorni concitati passati a capire tutto quello che è accaduto al Westgate, la telefonata più carina l’ho ricevuta da mia figlia Micol. “Papà grazie. Appena ho saputo dell’attentato ho pensato a quello che mi ripetevi in continuazione. ‘Non andare al Westagate è un target perfetto per i terroristi radicali islamici. La sicurezza e una parte della proprietà sono israeliane; è un boccone gustoso per i fondamentalisti. Inoltre è una trappola. Un parallelepipedo di vetro e cemento’. Grazie ancora”.
Lo sapevamo tutti che il Westgate era pericoloso. La clientela era di ogni età: c’erano i bar alla moda, frequentati dai giovani, i negozi d’abbigliamento, con le firme europee, e l’enorme supermercato Nakumatt, una filiale della catena più prestigiosa e rifornita del Kenya. All’ultimo piano le sale cinematografiche e i fastfood e, accanto, una terrazza con un grande parcheggio che si raggiungeva da una rampa direttamente dal pian terreno.
Tutti i giornalisti di Nairobi, ma non solo, anche gli espatriati e i servizi di intelligence, sapevano che quel posto era pericoloso. Anche la sicurezza delle Nazioni Unite, solitamente ben informata, aveva spesso mandato degli avvisi. Io ci andavo ogni tanto perché all’Art Cafè, un locale trandy pieno di giovani, ma non solo, facevano il pane più buono della città. Tutti sapevano del rischio che correvano andando lì.
Ciò nonostante sabato scorso, esattamente una settimana fa, i terroristi sono entrati tranquillamente nel Westgate e hanno potuto organizzare un attacco in grande stile, senza che nessuno riuscisse a fermarli. In un articolo scritto il 7 novembre 2011 avevo parlato con un comandante della sicurezza privata del Westgate, incaricato di controllare le auto in entrata nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale, che si era fatto riconoscere soltanto con il nome di battesimo, Peter: “Temiamo un attentato – aveva raccontato -. Riceviamo quotidianamente un rapporto dell’intelligence che ci aggiorna sui movimenti di sospetti terroristi”. Sabato probabilmente non è arrivato nessun rapporto.
Più o meno un anno e mezzo fa, la polizia keniota ha arrestato un gruppetto di persone provenienti dalla Somalia con un carico di armi e munizioni ma, soprattutto, con mappe e indirizzi di possibili obbiettivi terroristici. Oltre al Westgate, i target indicavano un altro centro commerciale, di proprietà israeliana, Yaya centre, e International House, il grattacielo nel centro di Nairobi che ospitava, oltre a numerosi uffici, almeno cinque ambasciate, tra cui quella italiana. Ospitava, perché quattro, Spagna, Svizzera, Ruanda, Gibuti, dopo quella rivelazione hanno traslocato. Solo l’ambasciata italiana è ancora lì, imperterrita a sfidare la sorte. (update: l’ambasciata italiana a fine 2017 si è trasferita in un quartiere più sicuro, ndr)
Più volte è stata identificata una nuova sede da affittare, ma le pastoie burocratiche del nostro Paese, hanno sempre rimandato sine die. E dire, ironia della sorte, che la residenza del nostro ambasciatore sorge in un quartiere residenziale ed è circondata da un terreno immenso dove si potrebbe facilmente costruire una nuove legazione diplomatica e non in affitto, ma di proprietà dello Stato. Il terreno è talmente grande che una parte è stato affittato – per un simbolico scellino all’anno, cioè 0,008 euro, che i nostri ambasciatori devono riscuotere con tanto di ricevuta per evitare l’usucapione – all’ambasciata e alla residenza del Belgio.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi
Nelle foto: una bambina fugge dal Westgate pochi minuti dopo l’attacco, un’immagine di due terroristi all’interno del centro commerciale, agenti della sicurezza privata cercano di contrastare gli assalitori e infine il palazzo di International House, dove hanno sede gli uffici dell’ambasciata italiana a Nairobi
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