DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 19 settembre 2013
Il 18 settembre del 2001 (esattamente 12 anni fa) mentre tutti gli occhi del mondo erano puntati su New York dove sette giorni prima si era consumato il barbaro attentato contro le torri gemelle, in Eritrea si è consumato un feroce delitto contro la democrazia dell’allora più giovane Stato del mondo. All’alba le forze di sicurezza con blitz simultanei hanno arrestato un gruppo di dissidenti sorpresi quasi tutti nel sonno. Non erano persone qualunque ma ministri, ex ministri, giornalisti e comunque veterani della rivoluzione.
Avevano combattuto la guerra di indipendenza contro l’Etiopia e cercavano di tirar fuori il loro Paese dal pantano di una guerra assurda con l’Etiopia dove li aveva cacciati il loro stesso regime.
Tutti compagni di lotta dell’uomo che aveva ordinato la loro incarcerazione, il dittatore Isaias Afeworki, che da combattente per la libertà si era trasformato in feroce tiranno. Suoi amici e eroi, gente con cui aveva condiviso le battaglie più generose e democratiche. Da quel fatidico 18 settembre 2001, di loro non si sa più nulla. Il Paese è al collasso e alla deriva e ai giovani non resta altro che scappare e tentare il viaggio della speranza verso l’Europa.
Tra gli incarcerati di quei giorni (più tardi sarebbe toccato ad altri finire dietro le sbarre), Petros Solomon, ex capo dei servizi segreti del Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea, ex ministro degli Esteri il vero vincitore della guerra di indipendenza (potrebbe essere paragonato al nostro eroe nazionale, Giuseppe Garibaldi) e colui che aveva salvato il suo Paese dall’invasione etiopica durante le guerre del 1998 e del 2000.
La colpa di Salomon e degli altri arrestati, di aver scritto un appello ad Isaias Afeworki perché democratizzasse il Paese, applicasse la Costituzione, garantisse la libertà di stampa e di espressione e aprisse il Paese agli investimenti stranieri. Una lettera pacata e gentile che metteva in guardia dalle tentazioni autoritarie. Il baffuto presidente, che aveva già bandito i partiti e il voto popolare, ha detto no agli inutili fastidi democratici e ha fatto scattare la repressione, ancora più ignobile, se mai ce ne fosse bisogno, perché diretta verso le persone che gli erano più vicine e che l’avevano aiutato in tutto il suo percorso politico.
L’Eritrea, che prima della seconda guerra mondiale era il Paese più industrializzato di tutta l’Africa, secondo solo al Sudafrica, ora è ridotto alla fame. Il suo tiranno soffre probabilmente di megalomania sciovinista e ha imparato tanto dal fascismo che ha governato per lunghi anni la colonia prediletta dall’Italia. Le galere sono piene di dissidenti o comunque di sospetti. Ovunque si vedono nemici e avversari. I servizi segreti scrutano e investigano la vita di chiunque. Il Paese è chiusissimo ed entrarci, come giornalista, è difficile. Durante la guerra di indipendenza Isaias aveva promesso libertà e benessere, invece ha portato repressione e macerie.
Il Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea (FPLE) di cui Isaias era il leader, era riuscito a creare un forte sentimento di patriottismo nazionale di cui adesso non resta più nulla. Non è difficile sentire eritrei che rimpiangono addirittura l’occupazione etiopica: “E’ peggio di quando c’era Menghistu”, il dittatore militar-comunista che ha dominato ad Addis Abeba con il pungo di ferro fino al 1991. Isaias ha militarizzato il Paese, l’ha riempito di spie, ha incrementato la cultura del sospetto. Ha schiacciato tutte le speranze dei giovani, delle donne, della forza lavoro di un Paese che è sicuramente più avanzato dei suoi vicini.
Oggi, denuncia il sito awate.com, i prigionieri di coscienza sono almeno 10 mila. Ridurre così i suoi connazionali è una colpa grave. “Il tiranno dovrebbe essere denunciato alla corte penale internazionale per crimini contro l’umanità”, sostengono molti dei leader dell’opposizione. E forse non hanno torto.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi
Nelle foto: una ragazza eritrea mostra orgogliosa la bandiera del suo Paese, un camion di profughi eritrei nel deserto al confine tra Libia e Sudan, una foto scattata poco dopo il 1975, anno della fondazione dell’FPLE, nella quale ci sono tutti i dirigenti, infine Petros Solomon, un po’ prima del suo arresto arbitrario.
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