Il 13 settembre del 2001
(esattamente 12 anni fa) il dittatore eritreo
Isaias Afeworki faceva arrestare un gruppo di dissidenti,
suoi amici e compagni di lotta,
eroi della guerra di indipendenza contro l’Etiopia.
Di loro non si sa più nulla da allora.
L’Eritrea era la speranza di un’Africa nuova in cui il sostegno popolare sembrava poter dare vita a una democrazia partecipata da tutto il suo popolo. Così non è stato. L’Eritrea di oggi è a Sawa (inospitale campo militare, ndr), pronta a difendersi da una minaccia etiope sempre più vaga e a sostenere il potere assoluto del presidente e dei pochi militari che ne condividono la follia e l’avidità di potere e di denaro.
Ma il governo eritreo ha mezzi efficienti: ogni immigrato in Europa è controllato e schedato, e deve versare un contributo all’ambasciata del suo Paese. E se non intende sottostare a queste condizioni, allora viene minacciato e picchiato. Solo se paga il 2 per cento potrà ottenere un nuovo visto sul passaporto, solo così potrà garantire incolumità ai parenti rimasti in Eritrea.
L’Eritrea che fugge, raccoglie pomodori e svolge lavori ingrati per salari da fame, per un rancio da schiavi. La maggior parte dei giovani è destinata a una condizione di emigrazione clandestina, nei migliori dei casi a lunghe code notturne dietro agli sportelli degli uffici delle Prefetture per tentare di ottenere il rinnovo dei visti. In altri frequenti casi, gli emigrati finiscono per diventare carne da macello per i trafficanti d’organi nel Sinai.
Marco Cavallarin
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