Ripubblichiamo questa drammatica testimonianza
del massacro di 4 giornalisti in Somalia nel 1993
Speciale Per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 12 luglio 2013
Il 12 luglio 1993, esattamente 20 anni fa, in un agguato a Mogadiscio, in Somalia, vengono trucidati quattro giornalisti: due fotografi, Dan Eldon, Hos Maina, un tecnico del suono, Anthony Macharia, che lavoravano per la Reuters, e Hansi Krauss, fotografo dell’Associated Press. Quel giorno mi rimane scolpito nella testa e spesso lo rivivo nei sogni. Mi salvai per pura fortuna.
Mattino intorno alle 10. Gli americani bombardano una villa dove avrebbero dovuto esserci i leader somali, compreso quello che per la Casa Bianca era il nemico pubblico numero 1, il generale Mohammed Farah Aidid.
Uno stormo di elicotteri volteggia in cielo e i giornalisti affollano il terrazzo dell’Hotel Sahafi da cui si cerca di vedere e capire cosa sta succedendo. I nostri fixer somali ci informano dell’attacco in corso. Dura una mezz’ora. Quando gli elicotteri si ritirano ci precipitiamo giù dalle scale per correre sul luogo dell’assalto.
La mia Fiat Panda bianca, quella con grandi scritte Corriere della Sera sui fianchi diventata famosa a Mogadiscio in quel giorni, è pronta davanti al cancello. Al volante Ali, il mio fidato autista (quello che poi sarà al volante dell’auto di Ilaria Alpi al momento in cui sarà ammazzata). Con me sale anche il fotografo Cristiano Laruffa. Partiamo. Siamo i primi del convoglio di auto di giornalisti. Dietro di noi il pick up della Reuters. Assieme a Dan, Hos, Anthony e Hansi c’è anche il cameraman Mohammed Shaffi.
Fatti cento metri in direzione della villa bombardata che intendiamo raggiungere, incontro Nasser della famiglia Arush, che ci ammonisce: “Prendete uno dei miliziani di Aidid per proteggervi”. Sì, penso, meglio. Perdo i pochi secondi che mi salveranno. Scendo dalla Panda, apro la porta, ribalto in avanti il sedile, faccio entrare il miliziano con il kalashnikov, risistemo il sedile, risalgo in macchina, chiudo la porta e ripartiamo.
Il miliziano destinato all’auto della Reuters invece salta in un balzo sul pick up, che parte immediatamente e ci supera. Diventiamo così i secondi del convoglio. Dopo pochi metri svoltiamo a destra in una stradina. Ci viene incontro una folla di somali inferociti che brandiscono bastoni e fucili. Il pick up dei colleghi riesce a farsi largo e a passare; la mia auto, invece, viene bloccata. La Panda viene presa a pugni e calci. I vetri resistono e fallisce anche il tentativo di rovesciarla. Ali innesta la retromarcia mentre il pick up si allontana velocissimo. Quando la vediamo scomparire dietro una casa, Cristiano inveisce: “Sei un cretino, dovevamo saltare anche noi su quel pick up”. I quattro su “quel pica up” saranno trucidati, i loro corpi dilaniati e vandalizzati.
Respinti dalla folla noi intanto siamo costretti a tornare indietro, “Portaci all’ospedale”, ordino ad Ali.
Dopo pochi minuti arriviamo nel cortile dell’ospedale Benadir. Per terra, allineati, una decina di corpi. Cristiano comincia a fotografare, ma ci viene incontro una folla minacciosa armata di bastoni. Dietro le mie spalle compaiono due vecchi amici: l’avvocato Gelle e Omar Olad. Urlano: “Scappate, scappate”. Montiamo nella Panda. L’avvocato Gelle si siede sul cofano e con un bastone ci fa largo tra i facinorosi che stanno per circondarci. Omar Olad ci protegge da dietro. Uscendo dal cancello dell’ospedale Gelle cade sul selciato e si ferisce leggermente.
Corriamo all’albergo Sahafi e ci barrichiamo dentro. La notizia della morte di alcuni giornalisti è già arrivata. Ci guardiamo in faccia e facciamo la conta per vedere chi manca all’appello. Non c’è Ilaria, la cui auto era dietro la mia. La cerco al walkie-talkie (il Corriere me ne aveva messi a disposizione due e uno lo teneva lei). Niente. Sono terrorizzato che sia tra i morti invece compare in hotel poco dopo. Ma all’albergo arriva un’altra auto. Mohammed Shaffi, svenuto, ferito e con la faccia irriconoscibile dal sangue e dalle smorfie, viene scaraventato davanti al cancello. Cristiano esce e se lo carica in spalla e lo porta dentro. Mohammed racconterà più tardi: “Non mi hanno ammazzato perché mi sono messo a recitare il Corano. Mi hanno risparmiato per questo”.
Altra visita poco dopo: un camion carico di cadaveri si ferma. L’autista invita i giornalisti a uscire e fotografare il macabro carico. Sono stati uccisi dal raid americano, tra la folla di giornalisti si intrufola un somalo. Si avvicina a Ilaria e tenta di accoltellarla. La mia sorellina (così la chiamavo) viene spintonata dentro il cancello e salvata da Ali.
Qualche ora dopo il corpo di Dan viene abbandonato in una strada e raccattato quindi da un elicottero americano. Il giorno dopo mi verrà offerto un video amatoriale girato da un somalo che ha assistito al recupero. Lo farò comprare ad Ingrid Formanek (CNN) e Ilaria Alpi. Io lo avevo visionato ma non avrei potuto utilizzarlo.
Ad aiutare Andy Hill, il corrispondente della Reuters a Mogadiscio, a recuperare i corpi degli altri due colleghi della Reuters viene da Nairobi il capo dei servizi televisivi dell’agenzia, Mohammed Amin (morirà nel novembre 1996 durante il dirottamento dell’aereo dell’Ethiopian Airlines alle Comoro). Mentre Reid G. Miller, il capo dell’AP di Nairobi, già a Mogadiscio all’Hotel Sahafi, si occupa di Hansi Krauss. Il giorno dopo, 13 luglio, ci avvisano che i corpi degli altri colleghi uccisi sono stati lasciati a un incrocio. Cerchiamo di andare a prenderli ma quando ci avviciniamo arriva una gragnola di colpi di mitra. Reuters e Ap organizzano un pulmino somalo e con somali a bordo per andarli a recuperare. I corpi sono dilaniati.
Vengono portati alla morgue dell’Unisom e messi nei body bag. Gli americani chiederanno 800 dollari l’uno per trasportarli a Nairobi.
Massimo A. Alberizzi
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Nella foto in alto di Raffaele Ciriello, ucciso a Ramallah il 13 marzo 2002, un gruppo di fotografi in quel giorni a Mogadiscio. Poi Dan Eldon, britannico, era giovanissimo poco più che ventenne. Leggermente in basso Anthony Macharia, keniota, era tecnico del suono per Reuters TV. Quindi Hansi Krauss, tedesco, fotografo dell’AP. Infine Hos Maina, keniota e fotografo anche lui. Per la Reuters erano in due. Dan doveva rientrare nel pomeriggio a Nairobi e Hos era appena arrivato a Mogadiscio. Si sarebbero dovuti dare il cambio. Nonostante dovesse partire dopo poche ore, Dan volle correre lo stesso a vedere cos’era successo in quella villa bombardata dagli americani. Nella foto in basso della AFP Mohammed Shaffi nel cortile dell’Hotel Sahafi. Shaffi, pakistano musulmano, raccontò di essersi salvato recitando versetti del Corano. I somali lo risparmiarono. Era stato scaricato ferito e in profondo shock davanti ai cancelli dell’albergo e portato all’interno da Cristiano Laruffa. Piangeva a dirotto. Qui è ripreso mentre sta per essere caricato su una delle auto dei giornalisti per essere trasportato all’ospedale americano. m.a.a.