Il governo eritreo impone arbitrariamente agli emigrati nel nostro e in altri Paesi un tributo del 2 per cento sui redditi. A chi non paga non vengono rinnovati i documenti, viene impedito di compiere atti giuridici in patria ed è proibito inviare aiuti alla famiglia. Una situazione che nasconde interessi poco chiari, tollerata dalle autorità italiane.
di Enrico Casale
“Dev’essere chiara una cosa: questa non è né un’imposta legittima, né una libera donazione da parte degli emigranti verso il proprio Paese di origine. È un’odiosa forma di ricatto e di controllo da parte di un regime che non si accontenta di reprimere i propri cittadini in patria, ma li vuole sottomessi anche all’estero”. Dalle parole di Munir (il nome è di fantasia, come quelli delle nostre altre fonti), giovane immigrato eritreo, traspare tutta la rabbia per una situazione che per lui e per molti suoi compatrioti sta diventando insopportabile sia dal punto di vista economico sia da quello delle libertà personali.
Parla sotto anonimato, per timore di rappresaglie. Ma quando inizia a raccontare è un fiume in piena. Lui, come tutti gli eritrei della diaspora, è costretto a pagare un’imposta del 2 per cento all’anno sui redditi che produce all’estero (che si aggiunge ai tributi da versare allo Stato che lo ospita). Se non paga, non gli vengono rinnovati i documenti nelle sedi consolari e non può compiere alcun atto giuridico in Eritrea (acquistare o vendere case e terreni, partecipare alla successione testamentaria, richiedere documenti in patria, ecc.). “Questa – continua – è solo una parte del problema. Se la mia famiglia in Eritrea non riesce a dimostrare che io ho pagato l’imposta, non può ricevere il cibo e le merci che le invio. Quel cibo e quelle merci vengono poi sequestrati alla dogana dagli agenti della polizia di frontiera. Non solo, la rete consolare eritrea ha creato un sistema di controlli per evitare ogni tipo di “evasione”. Controlli talmente stringenti che violano, anche all’estero, la libertà personale degli eritrei”.
2 PER CENTO E ALTRI BALZELLI
L’imposta nella sua forma attuale nasce subito dopo l’indipendenza dell’Eritrea (1993). Al termine di una lotta trentennale contro l’Etiopia, Asmara chiede agli eritrei della diaspora di donare parte dei redditi per aiutare la ricostruzione del PaeELLIse. Nel 1999, con lo scoppio della nuova guerra contro l’Etiopia, il governo eritreo chiede a tutti gli espatriati nel mondo un’ulteriore una tantum di un milione di lire l’anno (richiesta che si ripete per i tre anni del conflitto) e un versamento aggiuntivo di 50mila lire al mese. Anche in questo caso, la risposta è generosa, nonostante il peso dei contributi inizi a crescere.
Ma al governo eritreo non basta ancora. Alla fine della guerra, chiede un altro contributo per le famiglie dei ragazzi morti nel conflitto. Questo, fermo restando l’”obbligo” di versare il 2 per cento. “Dopo la guerra – spiega Michael, un altro ragazzo eritreo – non sono mancate ulteriori una tantum. Un anno abbiamo dovuto pagare una quota extra per gli orfani di guerra, poi per le cene dei reduci. E così via. Nel tempo l’esborso si è fatto sempre più gravoso tanto che molti, soprattutto i giovani emigrati, non sono più riusciti a pagarlo”.
Gruppi di eritrei in Italia e in altri Paesi della diaspora iniziano a chiedere di ridurre i contributi. Il governo eritreo però non cede. D’altra parte, per Asmara il contributo è un modo per avere entrate certe in valuta pregiata. Valuta contante, perché i consolati non accettano pagamenti tramite assegni, carte di credito, bancomat. Un flusso di denaro del quale non si conosce la destinazione. Tanto da attirare l’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nella risoluzione n. 1907 del 2009, nella quale è stato imposto l’embargo all’esportazione di armi verso l’Eritrea, l’Onu pone l’attenzione a tutte le forme di finanziamento di questo traffico. E tra queste anche le ambasciate e la rete consolare eritrea che gestiscono fondi ingenti derivati dalla cosiddetta diaspora taxation.
Enrico Casale
(1 – Continua)
Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Popoli che l’ha gentilmente concesso a Africa ExPress
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