Dal Nostro Inviato
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 7 novembre 2011
Omar, la guida che mi conduce nei meandri dei Eastleigh, assume un’aria piuttosto preoccupata quando gli chiedo di portarmi alla moschea nella Sesta Strada, quella guidata dagli imam fondamentalisti.
Eastleigh è il quartiere somalo di Nairobi (la chiamano la piccola Mogadiscio), un immenso mercato dove si vende di tutto: perfino televisori e computer ultimo modello (roba di contrabbando, naturalmente) e khat, l’erba contenente uno stimolante anfetaminico, che quasi tutti i somali masticano a partire dalle due del pomeriggio. Le strade della borgata sono percorse da liquidi maleodoranti e bisogna stare attenti dove si cammina per evitare pozzanghere e fiumiciattoli in cui naviga di tutto. I bambini giocano con l’immondizia e francamente, quando l’odore diventa nauseante, lo stomaco protesta e non è facile andare avanti.
A Eastleigh ci sono tutti i tipi di somali: quelli colti che parlano italiano e hanno studiato all’università e quelli che non sanno né leggere e né scrivere; ci sono gli islamici moderati che sostengono il Governo Federale di Transizione (Tfg) al potere a Mogadiscio (un potere assai ridotto giacché controlla solo alcuni quartieri della capitale o poco più) e chi finanzia o fiancheggia gli insorti fondamentalisti (gli shebab), filiale somala di Al Qaeda.
La moschea della Sesta Strada è indicata come la più oltranzista e in molti avanzano il sospetto che sia un covo di shebab e di loro simpatizzanti.
Il venerdì i sermoni degli imam infiammano gli animi dei fedeli, anche se nelle ultime settimane le parole espresse in pubblico sono diventate più soft: esattamente dopo il 15 ottobre, quando le truppe keniote sono entrate in Somalia per dare la caccia agli integralisti, accusati di aver effettuato incursioni in territorio keniota, dove hanno rapito quattro donne. Due mentre erano in vacanza sulla costa dell’Oceano Indiano. Il 10 settembre la prima, Judith Tebbutt, 56 anni (il marito David, che cercava di difendere la moglie, è stato ucciso); Il primo ottobre – a Manda, una delle isole dell’arcipelago di Lamu, – la seconda, Marie Didieu, costretta su una sedia a rotelle. Marie è morta nelle mani dei banditi. Il 13 ottobre, invece, sono state sequestrate nel campo profughi di Dadaab due volontarie spagnole, Montserrat Serra Ridao e Blanca Thiebaut.
Altra giustificazione addotta dei kenioti è stata quella della necessità di spazzar via la pirateria che infesta le acque del Corno d’Africa.
Gli shebab hanno minacciato ritorsioni in territorio keniota: “Faremo saltare i palazzi nelle vostre città”, ma finora la vendetta si è limitata ad alcune bombe nella capitale e imboscate a militari nei villaggi limitrofi al confine con l’ex colonia italiana, organizzate chiaramente da “dilettanti del terrore”. Ma non è un mistero a Nairobi che tra gli obbiettivi privilegiati dei professionisti del massacro c’è International House, un centralissimo grattacielo dove ha sede, tra l’altro, l’ambasciata italiana.
E così la capitale è scivolata lentamente nella paura. Eastleigh sembra proprio il quartiere dove si potrebbe facilmente organizzare un attentato suicida e la moschea della sesta Strada (il nome ufficiale è Abubakar) viene indicata come il centro della sovversione. La palazzina è modesta e il minareto bassissimo. Sheck Umal, il gran capo, non c’è. E’ alla Mecca per il tradizionale pellegrinaggio. Al suo posto si lascia intervistare l’imam Abdirashid Ahmed. In un angolo, dove l’acre odore della cipolla si mescola ai profumi degli incensi orientali, il santone spiega: “Sì, è vero, gli shebab qui a Eastleigh ci sono, ma non si fanno riconoscere. Quindi io non so dove si annidino”.
In tutto il quartiere i ragazzi sono vestiti in jeans e maglietta, le ragazze portano il velo ma anche gonne al ginocchio. Quando ci si avvicina alla Sesta Strada il look cambia: cominciano i larghi camicioni, le barbe lunghe e i capelli cortissimi. Abdirashid bofonchia qualcosa tipo: “L’abito non fa monaco”. Poi aggiunge: “Sono bravi musulmani più di quelli in jeans. Ma io non mi occupo di politica”.
A Nairobi i controlli di sicurezza sono rafforzati: nei centri commerciali, negli alberghi, nei bar, nei locali notturni e nel grande parco dove è ospitato il secondo quartier generale delle Nazioni Unite, dopo quello di New York.
Il Kenya, che stava facendo enormi sforzi per decollare e a porsi agli occhi degli altri Paesi africani come un esempio di prosperità e sviluppo economico, sembra essere risucchiato nel gorgo della recessione. “Temiamo un attentato – conferma Peter, un agente privato che controlla le auto che entrano nel parcheggio sotterraneo di Westgate, il più raffinato dei centri commerciali della città -. Riceviamo quotidianamente un rapporto dell’intelligence che ci aggiorna sui movimenti di sospetti terroristi”.
Sulla costa, in vista delle prossime vacanze di fine anno, il solito pienone non ci sarà. Se si telefona negli alberghi si scopre che si può ancora prenotare con facilità.
Il ministro del turismo, Najib Balala, però minimizza: “Arriveranno charter dall’est Europa, Russia, Polonia, Ucraina, e copriremo tutti i posti letto. La minaccia degli shebab non è reale. Dal confine ora non si passa più impunemente”.
Già, ma gli islamici radicali il Kenya ce l’ha in casa, non è necessario che arrivino da fuori. Nelle campagne, dove ci sono solo capanne le uniche costruzioni sono le moschee, magari minuscole, ma in muratura. Lo stesso Balala, che pure è schiettamente laico, è stato accusato di finanziare gli islamici integralisti. “Un attacco strumentale – si difende il ministro -. I musulmani non sono tutti terroristi e le moschee non sono centri di organizzazione di attentati”. Certamente è vero, ma la miscela tra disoccupazione, povertà, corruzione, mancanza di prospettive per i giovani e islam può essere pericolosamente esplosiva e per gli shebab reclutare gruppi di combattenti pronti alla Jihad e al suicidio non è poi così difficile.
Massimo A. Alberizzi
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