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Cacciati dalle terre in Uganda: il dramma di 20 mila contadini

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kicucula (Uganda), 24 settembre 2011

Dall’alto della collina Paulo Ntesemana guarda con le lacrime agli occhi quella che fino a pochi mesi fa era la sua terra. Fa un ampio gesto con il braccio: “Ecco, tutto questo era mio. Coltivavo caffè  e patate, avevo mucche, capre e pecore. Guadagnavo bene e ogni anno con un milione di scellini (262 euro, ndr) potevo permettermi di mandare i miei tre figli a scuola. Volevo che diventassero dottori. Invece, un anno fa mi hanno confiscato tutto, bruciato la casa e picchiato brutalmente. Ho abbandonato la terra e sono andato a vivere da mio fratello. Ospite, senza più un lavoro. E i miei figli non vanno più a scuola”.

L’acquisto delle terreni agricoli da parte di grandi compagnie occidentali non è una pratica che si registra solo in Uganda. Come spiegano diverse indagini dell’ONU e di alcune Organizzazioni non Governative, si è ormai diffusa in tutta l’Africa e non solo. La riforestazione e l’uso intensivo di campagne finora sottoutilizzate, perché destinate a un’agricoltura di sostentamento, potrebbe giovare sia alle economie povere sia all’ambiente.

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Ma invece non è così perché i contadini che da anni abitavano quelle terre sono stati allontanati senza alcuna ricompensa né in denaro, né in altre campagne da coltivare. Dal 2001 nei Paesi in via di sviluppo, 227 milioni di ettari, una superficie grande quanto l’Europa Occidentale, è stata data in concessione a società straniere perché le coltivino: cinesi e indiane soprattutto, ma anche coreane o europee.

In particolare in Uganda ad accaparrarsi le campagne è stata la britannica New Forests Company (NFC) il cui presidente, Julian Ozanne, coisce bene l’africa, perché è stato corrispondente del Finacial Times da Nairobi. Uno dei più competenti giornalisti al tempo della guerra dell’Onu in Somalia all’inizio degli anni ’90. Julian, che ho conosciuto bene in quegli anni, scriveva di business, ora il business lo fa.

In Uganda, Tanzania e Mozambico, la NFC gestisce 90 mila ettari: la coltivazioni originali, banani, manghi, avocado, fagioli, cereali e altro, sono state distrutte e la terra è stata riconvertita a pini e eucalipti.

“Le nuove piantagioni – sottolinea Matt Grainger dell’ONG Oxfam International – hanno portato lavoro e gli alberi contribuiranno ad evitare che la produzione di legname avvenga sfruttando le foreste naturali. Inoltre si potranno vantare i carbon credit, previsti dal trattato di Kyodo”.

“Non solo – aggiunge Matt -. La NFC in Uganda ha aperto scuole, piccoli ambulatori, programmi economici con le comunità locali. Ha scavato pozzi e costruito latrine. Il contratto non prevede è una vera vendita ma un permesso di utilizzo che – per evitare un effetto devastante sull’economia locale – vieta comunque di coltivare piante destinate al cibo, allevare animali e costruire case. Il progetto è buono”.

Allora cos’è che non quadra? Al di là dei problemi che possono sorgere nei mercati interni, in Africa la gestione della terra è legata a sistemi di proprietà e di utilizzo consuetudinari con altrettanti diritti che in Europa si chiamerebbero “acquisiti” e in Africa “tradizionali”.

Un sistema che coinvolge l’organizzazione sociale. Insomma la proprietà fondiaria é un punto assai sensibile che coinvolge emotività antiche. Oggi nel continente solo una piccola parte della terra é oggetto di un titolo di proprietà individuale.

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In Uganda le piantagioni della NFC sono tre, nei distretti di Mubende, Kiboga e Bugiri, per un totale di 20 mila ettari, nei quali sono già stati piantati 12 milioni di pini e eucalipti. I terreni appartengono allo Stato che a sua volta li aveva dati in uso ai veterani di guerra come ricompensa per aver combattuto a fianco delle truppe britanniche in Egitto e in Birmania.

In Kiboga alcuni contadini le coltivavano da più di 40 anni e le avevano consegnate a figli e nipoti. Non solo, alcune proprietà erano passate di mano con regolari contratti di vendita.

“Avevo tre ettari di terra. Mi avevano assicurato che mi avrebbero ricompensato. Invece inatteso è arrivato un gruppo di militari, guidato a distanza da tre ‘muzungo’, tre bianchi – racconta Besigye Chance –. Hanno intimato di sloggiare immediatamente. Visto che esitavo mi hanno picchiato e minacciato di violentare mia moglie. Mentre scappavamo abbiamo visto che distruggevano la mia casa e bruciavano il mio bananeto”.

Testimonianze come quella di Besigye che ne sono parecchie nei villaggi ai margini delle piantagioni della NFC. Oxfam stima che il numero di persone cacciate dalle loro case ammonti a oltre 20 mila.

“Ci chiamano abusivi o occupanti illegali – racconta Bumusiba Ridia, 11 figli, il marito in ospedale, mostrando i documenti di proprietà di un terreno confiscato – ma non è così. Sono loro che hanno agito illegalmente per portar via le nostre proprietà. Eravamo ricchi ora siamo poverissimi”.

“Il progetto – ripete Matt Grainer – è buono, ma perché cacciar via la gente così? I contadini sono disposti a spostarsi se potessero ricevere nuove terre o i soldi per comprarle. In questo modo non si fanno gli interessi delle popolazioni autoctone ma, invece di produrre ricchezza e condizioni di vita migliori, si impoveriscono sempre più interi villaggi che vengono ridotti alla fame e all’indigenza. Gli effetti di questa politica potrebbero essere catastrofici

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

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maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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