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Due morti a Nairobi dopo il tentativo di rapina al direttore di Africa ExPress

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 17 novembre 2010

La sparatoria tra un gruppo di poliziotti e tre banditi che mi avevano appena rapinato è finita tragicamente: un agente e un gangster sono rimasti uccisi.

Il primo era riverso sul marciapiede e se non fosse per il fiotto di sangue che continuava a uscire dal buco in testa sembrava dormisse. Il secondo è stato freddato in un negozio di macchine fotografiche in cui si era rifugiato.

I suoi due complici sono riusciti a fuggire. Il tutto è avvenuto in una via centralissima della capitale keniota. Nairobi ormai è stata ribattezzata Nairobbery, una crasi tra il nome della città e la parola robbery che in inglese significa furto, rapina.

La mia auto era parcheggiata in una piccola ma centralissima via, General Kago street. Ero arrivato intorno alle due e, dopo aver partecipato a una conferenza stampa e fatto una commissione, ero andato a mangiare qualcosa in un bar, il caffè Java, vicinissimo all’ambasciata italiana. Pago il conto alle 15,41 e torno alla macchina.

Sto mettendo in moto quando sento qualcuno che scuote violentemente il veicolo. So che questa è una tecnica usata dai ladri. Ti distraggono, tu abbocchi e loro ti derubano di tutto quello che c’è nell’abitacolo. Perciò non mi muovo, chiudo le sicure delle portiere e aspetto un minuto. Solo quando l’uomo si allontana apro la mia porta. Ma con la mia sicura scatta anche la sicura delle altre porte. Scendo dalla macchia e la richiudo. Un secondo ladro dev’essere accucciato accanto alla porta del passeggero. La apre quando io scendo e sfila la mia borsa con dentro il computer e altri apparecchi elettronici. Si porta via anche il mio Ipad che era appoggiato in carica sul pavimento dell’auto. Un terzo ladro mi aspetta fuori e dice: “Ti hanno distrutto la macchina. Guarda qui”.

E poi indicandomi un uomo che si allontana: “E’ stato lui”. Forse spera che io lo insegua così, con il complice accucciato, può svaligiare completamente il veicolo. Ma io non mi muovo e rientro nell’auto. In quel momento mi accorgo che borsa e Ipad sono spariti. Tutta l’azione è durata meno di un minuto.

Scendo dall’auto e la chiudo con le sicure. La zona è frequentatissima ci sono guardie private da tutte le parti. Nessuno sembra aver visto niente.

Chiedo dov’è il posto di polizia più vicino. Ce n’è uno dentro International House il grattacielo dove c’è l’ambasciata italiana. Telefono a una collega che lavora lì e le racconto velocemente cosa mi è accaduto, poi corro al mezzanino dalla polizia e sporgo denuncia.

Ruth, la gentilissima capo della piccola stazione, chiede di ritornare assieme all’auto perché possa spiegarle meglio cosa è successo. Arriviamo sul posto lei prende appunti e torniamo nel suo ufficio. Mi suggerisce di andare alla polizia centrale perché c’è una sezione speciale, la Central Investigation Unit, che può rintracciare il telefono che era nella borsa che mi è stata rubata.

Sono le 16,35. Vorrei fare un paio di fotocopie della denuncia e telefona alla mia collega per chiedere se posso salire. Ma lei è già fuori, sta andando a casa. Ripiego così su una cartoleria poi torno alla macchina e mi dirigo verso la questura centrale, vicinissima all’Hotel Norfolk, un prestigioso hotel ai margini del centro. Entro nell’edificio e cerco gli uffici della Central Investigation Unit, quando la collega, con voce concitata mi chiama al telefono: “Massimo, sono spaventatissima. Avevo anch’io posteggiato vicino general Kago street. Quando sono arrivata alla mia macchina è scoppiata una sparatoria, hanno ammazzato due persone davanti a me”. Sembra quasi che stia per scoppiare a piangere ma continua: “Potrebbero essere i rapinatori che ti hanno attaccato. Vai lì, ma stai attento perché lo scontro potrebbe non essere terminato”.

Lascio la mia auto nel recinto delle questura centrale e a piedi corro sul posto. La sparatoria è finita. Sul selciato del marciapiede, accanto alla porta del negozio di fotografia c’è un cadavere: è quello dell’agente. Dal buco in testa sgorgano ancora fiotti di sangue.

Dentro il magazzino c’è un altro corpo a terra. E’ immerso in una pozza rossa. Accanto c’è la mia borsa e un revolver. Mi rivolgo a quello che sembra il capo degli investigatori. “Sir, that bag is mine”. Signore quella borsa è mia, gli spiego indicandogliela e mostrando la copia della denuncia appena fatta. C’è anche Ruth. Mi rivolgo anche a lei che capisce al volo.

“Un agente in borghese – racconterà più tardi – ha visto i banditi che ti rapinavano. Li ha seguiti e ha chiesto aiuto via radio. Quando i rinforzi sono arrivati li ha bloccati e ha cercato di perquisirli. Loro hanno reagito e ammazzato il mio collega. E’ scoppiata una sparatoria e così anche il bandito che si era rifugiato nel negozio è rimasto ucciso. Gli altri due sono riusciti a scappare, ma li ritroveremo. Dopo un’ora torniamo alla questura centrale. Assieme all’agente controlliamo il portafoglio del gangster ammazzato, e il revolver scassatissimo, arrugginito e con il manico in pezzi, che aveva in mano. L’ispettore Peter lo prova ma non spara: i proiettili sono finiti. Verifichiamo anche il contenuto della borsa. C’è quasi tutto: il computer è un po’ ammaccato, manca l’Ipad e le flash card che permettono di connettersi a internet.

Resto in caserma altre quattro ore. L’agente William prende la mia deposizione scritta con una penna stilografica e una bellissima e chiarissima calligrafia. Una deposizione dettagliatissima su aspetti assolutamente insignificanti (ha voluto sapere perfino in cosa, dove e quando mi sono laureato!) nella quale ho chiesto che venissero inseriti un plauso all’operato della polizia, le condoglianze alla famiglia dell’agente ucciso e la speranza di ritrovare il mio Ipad.

Massimo A. Alberizzi
malberizzi@africa-express.it
twitter @malberizzi

Nella foto International House, il palazzo dove c’è il posto di polizia e la sede dell’ambasciata italiana

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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