Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 4 marzo 2009
I tre giudici della prima camera preliminare della Corte Penale Internazionale (vengono dal Ghana, dalla Lettonia e dal Brasile) hanno autorizzato l’arresto del presidente del Sudan Omar Al Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. I magistrati hanno lasciato cadere l’accusa di genocidio. Ma solo per ora, perché se durante l’inchiesta emergeranno nuovi elementi, l’imputazione potrebbe essere ripresa.
L’italiana Silvana Arbia, cancelliere della Corte, già procuratore del tribunale per il Ruanda, durante la conferenza stampa, trasmessa in diretta dei network internazionali, ha sottolineato che per catturare Al Bashir sarà chiesta la collaborazione di tutti gli Stati compreso il Sudan. Arbia ha ricordato: «Le autorità di tutti i Paesi, compresi quelli che non hanno firmato il trattato (tra cui Stati Uniti, Cina, Sudan, Libia e Iran, ndr) hanno l’obbligo di arrestarlo e di riferire immediatamente alla Corte. Tutti hanno il dovere di rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza su questa materia. Anche se è presidente Al Bashir non gode di nessuna immunità». Le accuse per cui si chiede l’arresto riguardano tra l’altro tortura, stupro, saccheggio e distruzione di beni. «Le autorità sudanesi – ha concluso Arbia – si sono rifiutate di collaborare con la corte».
PROTESTE A KHARTOUM – La reazione di Khartoum è stata immediata. La televisione di stato ha bollato come “neocolonialista” la decisione della corte. Nella capitale centinaia di persone sono scese per la strade a sostegno del presidente formalmente incriminato, con cartelli di protesta e urlando slogan contro li giudici. Da un palco gli oratori hanno lanciato insulti al procuratore Louis Moreno-Ocampo, ai magistrati della corte e in genere contro l’Occidente.
E poco dopo sono arrivati i primi provvedimenti: il governo di Khartoum ha espulso dal Sudan dieci organizzazioni internazionali, tra cui Msf, accusandole di cooperazione con la Corte Penale Internazionale.
Si teme ora che vengano messe in atto rappresaglie anche verso i funzionari dell’Onu che lavorano nel Paese, 32 mila persone tra staff internazionale nazionale. La cifra comprende però 25 mila caschi blu, dislocati in Darfur ma soprattutto in Sud Sudan. Gli italiani sono 500, di cui 300 a Khartoum. Ocampo, nel luglio scorso nella sua richiesta di incriminazione del presidente Al Bashir per 10 capitoli diversi (cinque per crimini contro l’umanità, tre per genocidio, due per crimini di guerra), era stato categorico, parlando di precise responsabilità nel deliberato massacro dei civili delle tribù fur, masalit e zagawa che abitano il Darfur. «Il suo alibi – aveva scritto Moreno-Ocampo nella sua durissima e circostanziata richiesta di arresto – è combattere la ribellione, il suo intento è il genocidio. Non mi prendo il lusso si supporre: ho prove indiscutibili».
Secondo le accuse, “il presidente sudanese controlla tutto l’apparato dello Stato e usa questa sua influenza per coprire la verità e proteggere i suoi subordinati e la loro smania di genocidio”. Si calcola che in Darfur siano state ammazzate 300 mila persone e che due milioni siano stati costretti a scappare dalle loro case. Bashir già mesi fa si è rifiutato di consegnare due sospetti di genocidio: il ministro per gli affari umanitari, Ahmad Harun, e uno dei capi delle feroci milizie filogovernative, i janjaweed (i diavoli a cavallo), Ali Khashayb. E’ la prima volta che un presidente in carica viene incriminato.
Manifesti di Al Bashir a Kahartoum |
INCRIMINAZIONE SOSTENUTA DA TUTU – E l’incriminazione è stata sostenuta da uno dei leader storici del continente, l’arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu che martedì in un editoriale sul New York Times ha sottolineato con forza: «Poiché le vittime sono africane, i leader africani devono sostenere con determinazione la richiesta di vedere i responsabili perseguiti». Per altro con un plateale gesto di sfida, martedì il presidente sudanese è apparso in televisione mentre danzava e scherzava con i suoi sostenitori durante una manifestazione a suo favore nel nord del Paese, la zona da cui lui proviene. L’emittente ha fatto vedere il momento in cui i dimostranti bruciavano una grossa fotografia di Moreno-Ocampo: «Decideranno mercoledì – ha poi detto ai microfoni Al Bashir -. Ebbene noi gli diciamo di immergersi nell’acqua e di berla tutta”, una frase idiomatica araba che si usa per mostrare il massimo disprezzo. In questi mesi il governo sudanese ha reagito con spregio alla richiesta di Moreno-Ocampo di procedere verso Al Bashir: «Il procuratore è un criminale – aveva sentenziato senza mezzi termini Abdalmahmood Mohamad, ambasciatore all’Onu, subito dopo la richiesta di rendere esecutivo il mandato di arresto -. La motivazioni sono politiche e poi non riconosciamo quel tribunale».
LE MINACCE – In attesa della decisione odierna dei giudici, il 21 febbraio scorso, Salah Gosh, capo dei servizi di sicurezza e di intelligence del Sudan, aveva lanciato una minaccia: «Ci consideravano estremisti islamici, poi siamo diventati moderati e civilizzati credendo nella pace e nella vita per ciascuno. Potremmo tornare al passato estremismo, se fosse necessario. Non esiste nulla di più facile». Gosh aveva accusato la Cpi di essere manovrata da “lobby sioniste” e ha ricordato che il Sudan considera un crimine aiutare la Corte Penale Internazionale: «Tutti coloro che collaboreranno con essa saranno arrestati per essere processati». Esam Elhag, portavoce del gruppo ribelle SLA (Sudan Liberation Army) al telefono con il Corriere è soddisfatto: «E’ il primo passo verso la giustizia che stiamo aspettando dal 2003 quando è cominciata la pulizia etnica. Quel giorno lo stesso Bashir ha ammesso: «Non voglio né prigionieri né feriti». Quello di Ocampo è il primo passo verso la giustizia. Un atto che può lenire i sentimenti di vendetta che nutre la gente del Darfur».
Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur, organizzazione che ha promosso e sostenuto vari progetti nella disgraziata regione del Sudan Occidentale, ha scritto un libro, “Volti e colori del Darfur”, Edizioni Gorée, dove sono raccolte terribili testimonianze sulle violenze contro i civili. Eccone una, tratta dal volume che sarà presentato in aprile proprio in occasione della Giornata Mondiale per il Darfur. E’ la storia di Miryam, scappata nel campo rifugiati di Al Salam. La donna che non ha neanche una tenda per proteggere se stessa e il suo bimbo di pochi mesi, non conosce le ragioni della guerra tra i movimenti ribelli del Darfur e il governo di Khartoum, ma ricorda com’erano quelli che hanno distrutto il suo villaggio e l’hanno violentata. «Gente armata, arabi. Mi hanno buttata a terra, strappato i vestiti e mi hanno stuprata a turno. Sono svenuta».
Non ricorda altro, ma di una cosa è certa: ”Noi del Darfur li riconosciamo subito i predoni che vengono dal Nord. Sono cattivi e a noi donne fanno cose orribili, peggio di ogni cosa…”. Poi parla del marito. «E’ scomparso tre mesi fa – racconta – due settimane prima che partorissi. Non mi ha più voluta. Non so se è stato ucciso, non m’importa. Ora sono sola con il mio bambino e ho paura. Ma voglio che la gente sappia, voglio che chi è nel vostro e in altri paesi potenti non permettano che succedano ad altre ragazze quello che è successo a me». La decisione della Corte, comunque, non sembra potrà avere un effetto pratico. Appare assai improbabile che il presidente sudanese, andato al potere con un colpo di stato il 30 giugno 1989, venga tradotto in carcere all’Aia. A meno che la pressione internazionale non provochi un cataclisma nello stesso Sudan e un cambio di regime a Khartoum.
Massimo A. Alberizzi
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