Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Baidoa (Somalia), 13 dicembre 2006
Mengistu Hailè Mariam, il dittatore rosso che ha governato l’Etiopia dal 1977 al 1991, è stato giudicato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità. Il processo è durato 12 anni e la sentenza è prevista per il 28 dicembre. Mengistu nel 1991, prima che il suo regime fossa abbattuto dalla rivolta del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai, riuscì a scappare e a rifugiarsi in Zimbabwe, ospite del sui amico, Robert Mugabe. Conduce una vita assai riservata in una villa alla periferia di Harare.
Più volte mi ha rifiutato un’intervista perché – a suo dire – gli è stato chiesto di evitare qualunque dichiarazione. Mengistu è stato protagonista di una delle più atroci repressioni che la storia africana ricordi. L’accusa ha provato che era lui in persona a dare gli ordini di uccidere, torturare, violentare chiunque si opponeva al suo potere.
Nel 1974 il Negus Neghesti (cioè il re dei re, Hailè Selassie) d’Etiopia viene rovesciato da un colpo di Stato militare, le cui intenzioni iniziali sono quelle di modernizzare un Paese, fermo al medio evo. Un medio evo di splendore: l’Etiopia era l’unico Stato africano che poteva considerarsi tale e nel XIX secolo scambiava ambasciatori con i Paesi europei. Ma pur sempre un medioevo dove la società era divisa in caste e dove il potere era tutto nelle mani dei nobili e della Chiesa Ortodossa.
Ma ben preso i miliari golpisti si dividono, anche su come gestire la rivolta eritrea, che dal 1962 insanguina la provincia del nord. Così da una congiura di palazzo, durante la quale vengono assassinati i generali che fino a quel momento avevano gestito il potere della giunta militare (il Derg), emerge come leader il colonnello Mengistu. Mengistu chiede e ottiene il sostegno dell’Unione Sovietica che invia ingenti quantitativi di armi e un numero imprecisato di istruttori militari che lo aiutano a respingere l’invasione di truppe somale che avevano invaso il sud (l’Ogaden).
In Etiopia comincia la crudele e feroce repressione di ogni dissenso. Centinaia di studenti e di intellettuali che avevano creduto in un reale cambiamento della società vengono trucidati. Il “Terrore Rosso” (come passerà alla storia quel periodo) non risparmia operai, contadini, commercianti. Basta un semplice sospetto per cadere sotto il pugno di ferro della polizia politica del Derg.
Ne fanno le spese soprattutto i militanti dell’EPRP (Ethiopian People’s Revolutionary Party) il gruppo che per primo aveva appoggiato la rivolta contro Hailè Selassie. Nel Tigrai era nato due anni prima (nel 1975) il TPLF (Tigray People’s Liberation Front) guidato da Melles Zenawi, l’attuale leader etiopico, che combatte il Derg da posizioni filoalbenesi (l’Albania di allora del dittatore Enver Oxa). Dopo una disastrosa carestia (1984), che vede per la prima e unica volta affiancati nella corsa agli aiuti americani e sovietici, il regime fa sprofondare ancor di più il Paese in uno stato di povertà disastroso.
L’atteggiamento italiano verso il dittatore, che dopo aver sterminato l’opposizione, guida il Paese con il pugno di ferro, è benevolo. Il nostro governo (pur essendo Mengistu dichiaratamente schierato con l’Unione Sovietica in piena guerra fredda) non gli lesina gli aiuti e alla fine degli anni ’80 viene gratificato con il più dispendioso progetto di cooperazione mai finanziato da Roma: 800 miliardi di lire (gestiti dal Fai, il Fondo Aiuti Italiani di Francesco Forte) destinati al Tana Beles. Il progetto agroindustriale è faraonico e per realizzarlo viene sbancata un’intera foresta di bambù e la popolazione locale, gli shangilla, vengono deportati a migliaia di chilometri di distanza. Oggi di quell’immensa opera non resta più nulla.
La caduta del muro di Berlino, segna anche la fine dei dittatori africani filosovietici. Il 22 maggio 1991 i tigrini e gli eritrei entrano ad Addis Abeba e ad Asmara. Lui pochi giorni prima è costretto a fuggire mentre 4 scherani del regime si rifugiano nell’ambasciata italiana: uno si suiciderà poco dopo, il vice primo ministro Hailù Yemeni, un altro, il generale Tesfaye Gebre Kidane, che aveva sostituito il despota dopo la sua fuga, viene ammazzato nel giugno 2004, durante una rissa nella palazzina che li ospita nel grande recinto dell’ambasciata italiana a Addis Abeba.
Quindici anni dopo, ne sono rimasti due: Beranu Baye, suo ministro degli esteri, e il generale Addis Tedla, capo di stato maggiore. L’Italia non li consegna finché nel Paese vige la pena di morte. Ma Melles Zenawi, l’uomo che l’ha sconfitto e ora guida l’Etiopia, mi ha promesso, durante un’intervista, che la pena di morte non sarà applicata e verrà cancellata dai codici etiopici. Così Mengistu non lascerà il suo esilio dorato e non sconterà la condanna, ma per i due ospiti della nostra ambasciata potrebbero aprirsi le porte del carcere.
Massimo A. Alberizzi
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