Massimo A. Alberizzi
Niamey, 21 luglio 2003
“Io quei documenti non li ho mai visti e quindi, poiché portano la mia firma, sono falsi, proprio falsi”. Adamou Chekou, ex ambasciatore del Niger in Italia, l’uomo che avrebbe scritto al suo governo per annunciare l’ arrivo di un negoziatore iracheno interessato a comprare uranio, smentisce tutto. “Io non c’ entro nulla, non mi sono mai occupato di queste cose, di miniere e minerali”.
Chekou è appena stato a una battuta di caccia fuori Niamey e, quando ieri a tarda sera torna a casa e si accorge di due giornalisti occidentali al suo cancello (con me c’è l’inviato dell’Independent di Londra) non trova di meglio che chiudersi in casa. L’ uomo di scorta, un ufficiale in divisa che imbraccia una mitraglietta Uzi di fabbricazione israeliana, non ci permette neppure di attendere nel lussureggiante giardino della villa. Con cortesia, ma anche con fermezza, ci invita ad attendere fuori, sulla strada polverosa lì davanti.
L’ ex ambasciatore in Italia ci riceve pochi minuti dopo che nella sua villetta è arrivato Mahaman Ali, capo del gabinetto del presidente della Repubblica, Tandja Mamadou. Chekou è un buon amico del capo dello Stato e, secondo le voci che circolano a Niamey, un suo stretto protetto. Ha fatto perfino parte della delegazione che si è recata a Dakar, in Senegal, per incontrare il presidente americano, George W. Bush, alla sua prima tappa del recente viaggio in Africa.
La stanza dove ci accomodiamo sui divani per parlare è buia e la poca luce del tramonto che entra dalla finestre fa risplendere la galabia (il costume locale, un lungo camicione su pantaloni molto larghi) giallo-oro indossata dal padrone di casa.
“Ho sentito qualcosa di questa vicenda dalle radio e dalle televisioni internazionali, ma confesso di non aver seguito la cosa con particolare interesse”, si scusa. Inutile obiettargli che i giornali di tutto il mondo hanno parlato di lui e sembrerebbe che quei documenti siano stati confezionati da qualcuno, in qualche modo, frequentatore dell’ambasciata del Niger a Roma, quando lui ne era il responsabile. “Non ho mai visto quei documenti falsi e nessuno me li ha forniti. Io non sono stato chiamato né dagli americani, né dai britannici, né dagli italiani. Ufficialmente nessuno mi ha fatto mai sapere niente, nessuno mi ha chiesto alcunché, né cosa io ne pensassi”.
Nel febbraio 2002 la Cia ha inviato in Niger un diplomatico di grande esperienza africana, Joseph C. Wilson, per indagare sul dossier uranio dal Niger all’Iraq. “No, anche durante quel viaggio nessuno mi ha chiesto niente, nessuno mi ha mai interpellato. Io ero ancora in Italia, forse avrà parlato con il mio ministro degli Esteri”. Chekou, sprofondato nel suo divano, agita nervosamente un piede, e, all’obiezione che in quel caso il capo della diplomazia del Niger avrebbe dovuto avvisarlo, risponde: “Insomma la questione è palesemente falsa e quindi non mi riguarda”.
Ma Blair e Bush hanno in qualche modo scatenato la guerra su informazioni riguardanti la compravendita di uranio. Ci sono sospetti sull’operato del Niger e sul suo in particolare e lei non chiede al suo governo di indagare per capire chi ha fabbricato quel dossier e perché? “Non ci siamo posti realmente il problema. Il Niger è amico di tutti i Paesi occidentali, America, Francia, Gran Bretagna e Italia. Io poi amo l’Italia perché ho passato lì tanti anni della mia vita “, risponde un po’ seccato Adamou Chekou.
Lui parla l’italiano perfettamente ma sta ben attento a non pronunciare una parola nella nostra lingua. Neanche quando lo provoco con qualche frase. Sembra quasi che non intenda far perdere nulla del colloquio al capo di gabinetto del presidente. Anzi, Mahaman Ali interviene spesso per aggiungere qualcosa alle continue smentite. Quando poi mostriamo due dei documenti parla solo lui per illustrarne la manifesta falsità: “Vedete, questa lettera del 10 ottobre 2000, firmata dal ministro degli Esteri Ailele El Hadji Habibou, che peraltro aveva lasciato l’ incarico almeno tre anni prima, porta l’ intestazione del Consiglio militare supremo, dissolto nel 1997. E’ dunque palesemente contraffatta“.
Mahaman non spiega però che Ailele, dopo aver lasciato la diplomazia, è diventato presidente del Consiglio d’amministrazione della Cominak, la società che sfrutta le miniere di uranio di Akouta, nel nord del Niger. Ailele, tra l’altro, faceva parte della delegazione nigerina che a Dakar ha incontrato George W. Bush. Mahaman Ali, alla richiesta di poter incontrare il presidente della repubblica Tandja Mamadou per affrontare il dossier Iraq, oppone una certa resistenza, invocando regole di protocollo e burocratiche. “Bisogna passare per il ministero degli Esteri e per quello dell’ Informazione”, fa osservare.
Per lui non conta molto il fatto che il Niger in questi giorni sia sulle prime pagine di tutti i giornali e che dal governo nigerino ci si attenda un chiarimento convincente sulla vicenda: “Abbiamo ufficialmente smentito un nostro coinvolgimento nella vendita di uranio a Saddam”, è la secca conclusione. E’ difficile parlare con loro del fatto che comunque in Niger è possibile procurarsi qualunque documento, un passaporto, una patente, ma perfino un certificato di nascita o di morte senza grandi problemi. Basta pagare – e neppure tanto – il funzionario di turno che di buon grado si occupa di tutto.
Purtroppo, sebbene il Niger non sia uno dei Paesi africani più corrotti, il livello di povertà è tale che la gente per un po’ di denaro è disposta a fare qualunque cosa. Anche a fabbricare dossier finti sulla vendita di uranio all’ Iraq.
Per questo immenso e sabbioso Paese africano l’uranio è essenziale. Il suo minerale estratto dalle due miniere di Akouta e Arlit, gestite la prima dalla Cominak (34 per cento della francese Cogema, 31 della Onarem, governo nigerino, 25 della giapponese Ourd e 10 della spagnola Enusa) e la seconda dalla Somair (56 per cento Cogema, 36 Onarem, 6,54 per cento Urangesellschaft, tedesca) viene sottoposto a una prima raffinazione in un unico impianto gestito dalla Cogema. Vengono così prodotte 2.960 tonnellate all’anno di concentrato di uranio, la famosa yellowcake, la torta gialla, trasportate prima con camion e poi in treno a Cotonou, capitale e importante porto del Benin, da dove raggiungono gli impianti di arricchimento in Francia e negli Stati Uniti.
Fino a qualche anno fa l’uranio rappresentava il 61 per cento delle entrate del Paese. Ora è sceso al 40 per cento, ma solo perché il suo valore è diminuito fortemente.
Il Niger resta comunque uno dei Paesi più poveri del mondo con un tasso di scolarizzazione al 29 per cento, un reddito pro capite di 180 dollari l’ anno e un’ aspettativa di vita di 46 anni. La sua democrazia è fragile e il presidente Tandja Mamadou, eletto nel 1999, rischia di essere travolto da questo scandalo che i suoi avversari politici stanno utilizzando contro di lui.
Per i giornali dell’opposizione, infatti, il governo non poteva non sapere di questo dossier e forse ci ha anche lucrato sopra.
Massimo A. Alberizzi
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