Dal nostro inviato speciale
Monrovia, 11 luglio 2003
Pepè Kamara aveva 10 anni quando ha imbracciato il suo primo mitra. Era il 1991. Poi, quando è diventato più grandicello è passato all’Rpg (Racket Propelled Granade), un lanciagranate molto comune in Africa, di fabbricazione sovietica. Stessa carriera come quella di Junior George, reclutato nel ’90 all’età di 14 anni. “I ribelli del Npfl (National Patrotic Front of Liberia) fedeli a Charles Taylor, allora un comune signore della guerra, hanno attaccato il nostro villaggio – racconta Junior -. Mia madre è stata ammazzata accidentalmente durante la battaglia. Non so chi sia stato. Mio padre è riuscito a scappare e non l’ho mai più rivisto. I guerriglieri hanno conquistato l’abitato e mi hanno costretto a seguirli nella foresta. Mi hanno dato da mangiare, un giaciglio e mi hanno messo il mano un kalashnikov. Da allora ho cominciato a combattere”.
A Pepè manca mezzo braccio sinistro (“E’ stata una granata”) e Junior mostra un ampia cicatrice sull’addome cui ne corrisponde una seconda sulla schiena (“Un proiettile mi ha passato da parte a parte”). Entrambi ieri mattina hanno partecipato alla manifestazione del migliaio di veterani di guerra davanti all’ambasciata americana e al compound dell’Unione Europea (ex ambasciata italiana) per chiedere pace e giustizia. Una dimostrazione di invalidi, monchi e sciancati a favore del presidente Charles Taylor, accusato dal tribunale internazionale della Sierra Leone di crimini di guerra e in procinto (così ha promesso) di lasciare il Paese.
Ma Taylor vi ha ammazzato i genitori, vi ha costretto a combattere e ora voi lo sostenete? “Certo – è la risposta immediata di Pepè e Junior, ma non solo, anche di Tennessee, di Paul, di Jerry e degli altri ragazzini intorno che raccontano storie analoghe di brutalità e violenza – . Lui ci ha dato di che vivere. Ora se parte in esilio chi si occuperà di noi?”. Nessuno di loro ha mai partecipato a un corso di addestramento: non sanno smontare un’arma, né sparare con perizia. Non hanno mai preso pillole di anfetamina ma fumato “marijuana, hashish e qualcosa simile al crack”, per andare incontro al nemico euforici e sicuri di sé.
“I reclutamenti forzati dei bambini avvengono tutti i giorni – rivela David Parker, cordinatore delle operazioni umanitarie dell’Unione Europea in Liberia -. E’ una pratica diffusa sia tra i governativi sia tra i ribelli. Spesso i piccoli sono concentrati nello stesso gruppo. Le chiamano Smu, Small Boys Units (Unità di Giovani Ragazzini)”. A utilizzarle per primo è stato proprio Charles Taylor che il giorno di Natale 1989 (la festa dei bambini per antonomasia) ha dato inizio alla rivolta che l’avrebbe portato al potere, di fatto, nel 1996 e, con regolari elezioni, nel 1997.
“Il reclutamento dei più piccoli è un imperativo economico – spiega Brendan Paddy di Save The Children -. Senza più famiglia, con madre e padre ammazzati, non resta altro che entrare nella milizia, per aver qualcosa da mangiare tutti i giorni. Terrorizzati e resi ubbidienti con riti di magia nera, vengono drogati e ubriacati dai comandanti. L’alcool è più comune perché socialmente più accettato. Alcune volte i miliziani rapiscono i ragazzini e li fanno tornare nei loro villaggi a commettere atrocità: ammazzare il vicino di casa o i genitori. Così la comunità li considera rinnegati e criminali e non li riaccetterà più in caso di fuga e ritorno a casa”.
Secondo Donatella Vergari, direttore generale Terre des Hommes Italia e da anni studiosa del problema “la spinta a sfruttare i minori come macchine da guerra è causata dalla proliferazione delle armi leggere, che non richiedono forza fisica o particolari esperienze tecniche per essere usate. I bambini soldato sono vittime di gravi violazioni dei fondamentali diritti umani: esposti alla morte e al ferimento fisico, a torture, a sfruttamento sessuale, droga, abusi alcolici, separazione dalla famiglia, privazione del diritto allo studio e, se catturati, a rischio di esecuzione sommaria o lunga detenzione”.
In Liberia, in uno stato di guerra semiperenne dal 1989, per ora non ci sono progetti di demobilitazione: le fazioni in guerra hanno bisogno di soldati e quindi non lo permetterebbero. “Quello che cerchiamo di fare è prevenire il reclutamento di nuovi ragazzini, andando nei villaggi, parlando con la popolazione e cercando di proteggere i loro figli”, indica Paddy. Un lavoro complicato e difficile i cui risultati, in un ambiente dove trionfano miseria e violenza, sono piuttosto deludenti.
Le Nazioni Unite stimano che in Liberia ci siano 20 mila bambini e bambine (sembra sia l’unico Paese dove siano reclutate anche le femminucce) sotto le armi. Combattono sia per il governo che per i guerriglieri. Alcuni di essi hanno appena sei anni. La legge liberiana pone il limite minimo di 18 anni all’arruolamento, ma non viene rispettata. Anzi, l’esercito recluta i bambini anche in Sierra Leone.
Nel 1997 c’è stato un momento di relativa pace nel Paese in cui si è tentata la demobilitazione. Solo 4306 parteciparono al progetto e l’89 per cento di quelli che avrebbero dovuto parteciparvi sparirono, risucchiati con le loro unità nel vortice della guerra.
Un rapporto dell’Unicef stilato in quegli anni, riguardante quindi solo l’esercito nazionale (senza contare le milizie che lo fiancheggiano), parla del 18 per cento di bambini tra i soldati, 69 per cento dei quali con un’età compresa tra 15 e 17 anni, 27 per cento tra i 12 e i 14 anni e il resto sotto i 12. L’1 per cento erano bambine ma attenzione: questo dato non comprendeva le ragazzine rapite e usate come mogli, concubine o fidanzate dei piccoli e grandi soldati.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi
Le foto dei bambinik soldato, scattate durante la guerra in Liberia nel 2003, sono di Massimo A. Alberizzi
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